di Vincenzo Cipicchia
Non sempre è facile riuscire a mettersi in discussione, accettare il confronto con il mondo degli altri, rischiando di perdere un po’ delle proprie certezze in nome di un desiderio di migliorare o solo per il normale corso delle cose che infaticabilmente ci portano ad andare sempre avanti.
E ancora più difficile è continuare a desiderare di incontrare questi mondi diversi seppur a volte ermeticamente chiusi, essere vivacemente criticati, o ridicolizzati o magari apertamente rifiutati.
Cosi come non si può parlare di “gusti oggettivi” (è un ossimoro) ma appunto di cose “oggettivamente valide”.
Ma entriamo nel vivo della questione.
Ritengo giustissimo che manifestazioni come Agriturock abbiano un seguito, come altre avrebbero dovuto averne – Notturno Etrusco e Arte Viva per citarne alcune (ma di esempi ne ho a iosa) –ognuna rivolgendosi ad un pubblico differente, sia per l’età che per gli interessi culturali.
Ritengo altresì necessario precisare qualcosa.
Troppo spesso si dimentica che Tarquinia è ormai una città e come tale deve essere pensata e vissuta; ora, non è questa l’impressione che si percepisce. La molteplicità di spettacoli che l’Estate Tarquiniese offre quest’anno sembra infatti uno sporadico tentativo di creare sinergie tra “vissuto” e “da vivere”, tra fiction televisiva e realtà individuali che esistono al di fuori delle identità politiche che amministrano il territorio. Ben vengano le iniziative personali di soggetti privati e di associazioni, movimenti spontanei che denotano l’impossibile regia di chi dovrebbe essere motore e promotore, assenza di regia forse imputabile alla mancanza di spazi giusti e di persone giuste al giusto posto (scusate l’arbitrario uso della retorica del giusto).
Nel leggere infatti i “vari” programmi delle manifestazioni che si terranno tra luglio e agosto mi accorgo con costerno della contemporaneità della maggior parte degli eventi, e che, non solo si svolgeranno nelle stesse ore e quasi sempre durante il w.e., ma tratteranno anche delle stesse cose.
Questa anarchica proliferazione di spettacoli coglie il ricettore impreparato e abusato, mettendolo in condizione di operare una scelta non dovuta al “gusto degli altri”, alla diversità di interessi culturali, ma imputabile alla sindrome del supermercato, scegliere cioè tra più marchi che vendono lo stesso prodotto.
Non entro nel merito della qualità, voglio solo far notare che fare tante cose può generare un livellamento verso il basso, questo lo affermo anche come esperienza personale (con l’età si tende a fare meno e meglio, almeno spero), altrimenti si rischia la spettacolarizzazione della cultura e sappiamo bene gli effetti perversi che genera: l’epoca berlusconiana docet.