di Stefano Tienforti
Prima di scrivere un pezzo a commento del Divino Etrusco svoltosi lo scorso weekend ho voluto prendermi tutto il tempo necessario a elaborare le idee ed ordinarle – spero in maniera sufficientemente comprensibile –in queste righe: in fondo quello vissuto l’1,2 e 3 agosto a Tarquinia è assieme al Presepe Vivente – e forse di più – l’evento di punta del calendario annuale tarquiniese. Nonché, in pratica, l’unico di livello organizzato nel corso dell’estate.
Anche e soprattutto per questo, perciò, è una manifestazione cui la città non può rinunciare: ma il “non farla morire” – uso il virgolettato perché è la frase che più ho sentito pronunciare nei concitati e confusi giorni prima dell’evento – non può e non deve essere l’alibi per continuare a trattarla come fatto negli ultimi anni. E cioè improvvisando, rattoppando, litigando.
Qualche giorno prima del debutto, mentre eravamo a cena tra amici, Fabrizio Ercolani, che quest’anno ha dato la sua disponibilità last minute a collaborare all’organizzazione, mi ha detto che a suo avviso l’obiettivo primario del Divino è “portare gente a Tarquinia”. Gli ho obiettato, con termini più coloriti di quelli che scrivo qui, che non sono affatto d’accordo, e che secondo me lo scopo primario di ogni manifestazione turistica e promozionale non è tanto di portare tanta gente in città, quanto quello di mandarne via la stragrande maggioranza soddisfatta e pronta a riferire di quanto di bello e buono visto e vissuto a Tarquinia e nel corso della manifestazione. Sarebbe, quella, la più efficace, longeva ed economica forma di promozione, soprattutto se consideriamo che tutta quella fatta al Divino 2014 sono stati una manciata manifesti, qualche post Facebook ed i comunicati stampa.
Naturalmente sulla qualità e la piacevolezza di quanto offerto dalle tre serate lascio – per ovvi motivi di soggettività – la parola al lettore, così come sul livello enologico dell’evento. Mi limito, di mio, a chiedermi se è normale che un evento di tale rilievo per la città sia organizzato in una settimana o poco più; se negli ultimi giorni – e anche quelli stessi della manifestazione – sia logico ricorrere a chiamate in fretta e furia per riempire spazi di spettacolo e musicali; se la scelta, per forza di cose affrettata, di abbassare il prezzo dei carnet per attrarre gente e fare numeri sia la migliore nella promozione del valore e della qualità dei vini proposti in quella che, occorre ricordarlo, è una manifestazione che nasce e si fonda sull’enologia, e non una sagra; se la formula di coinvolgimento del tessuto economico e sociale del centro storico e della città in generale sia davvero efficace e soddisfacente.
Le risposte a tali domande sono, a mio avviso, meno soggettive e corrispondono a tutti no. No che diventano ancora più pesanti se si ragiona sui perché di tali ritardi, le cui radici affondano tutte nella politica, nelle discussioni di palazzo, nelle attribuzioni di oneri, onori e responsabilità. Così da una parte si parla, con l’affanno del lavoro affrettato, di riduzione dei costi folli dello scorso anno (non è la stessa amministrazione ed in pratica la stessa giunta che organizza? Nessuno dodici mesi fa si è accorto delle spese, mentre si banchettava sul loggiato del museo?), dall’altra ci si defila per “divergenze sulle linee organizzative”, di fatto scomparendo e lasciando per strada realtà e persone con cui si erano già presi impegni. E c’è anche un consigliere comunale capace di fermarmi per strada, in piena manifestazione, e dirmi (immagino con riferimento all’informazione locale): “Lo scorso anno quando organizzavamo noi ci avete ammazzato, quest’anno non scrivete niente?”. Sorvolando sul fatto che io, l’anno scorso, ero in ferie e sul Divino non ho speso mezza parola, m’è venuto spontaneo ricordargli che ha del ridicolo distinguere “noi” e “loro” in tema di organizzazione, quando per vincere le elezioni o per difendere la poltrona in consiglio si è tutti assieme.
Il ritardo, insomma, è una colpa – e non un alibi – a cui non può sottrarsi nessuno a livello politico ed amministrativo. Perché alla mancanza di programmazione dell’evento in sé si sono abbinate situazioni che, rasentando il grottesco, finiscono per assurgere a simboli emblematici del tardivo pressappochismo tarquiniese. A partire dalla curiosa coincidenza – non solo evitabile, ma assolutamente da evitare – per cui nelle sere della più attraente manifestazione estiva del centro storico due tra i più bei monumenti cittadini, Palazzo Vitelleschi e la Fontana di Piazza, entrambi al centro del percorso Divino, si presentavano con cantieri ed impalcature; per finire con l’avveniristica segnaletica alternativa – altro che QR code! – approntata per affrontare l’emergenza durante i tre giorni dell’evento, ancora visibile in città e comunque riprodotta, per i più pigri, nella foto a corredo del pezzo.