Un’apocalisse sui generis quella che ci presenta Franceschini, senza catastrofi o premonizioni magico-spirituali. È come se l’apocalisse fosse sempre stata qui sulla terra, in un tempo eterno ed immobile, a insaputa degli inconsapevoli, degli uomini-cadaveri che si aggirano per il mondo a cercare risposte a domande che risposte, forse, non avranno mai. Tre amici, tra cinismo e disperazione, tra dubbi e attese, tra il fare e il non fare, si incontrano, parlano, si confrontano, si perdono per poi ritrovarsi, ognuno con il proprio bagaglio e la propria coscienza da analizzare in un linguaggio estremamente contemporaneo, privo di ridondanze retoriche, voce di esseri umani che, in un mondo perduto, cercano un’identità autentica nello scorrere apatico, ma teatrale, della vita quotidiana. Eppure l’Apocalisse, alter ego simbolico della morte (in un’attesa monotona e delirante come succede nella pièce En attendant Godot di Samuel Beckett), implica una rinascita, un cambiamento, una rivoluzione interiore per poter arrivare alla consapevolezza di un’esistenza autentica, oltre la contingenza del reale.
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