Referendum sulla giustizia, la nota del PCI di Viterbo

Riceviamo dalla Segreteria Provinciale PCI di Viterbo e pubblichiamo

I comunisti della provincia di Viterbo, come deciso nell’ultima riunione del 14 Maggio scorso, hanno esaminato e approfondito sinteticamente i cinque Referendum sulla Giustizia.
Con questo approfondimento intendiamo, perciò, fornire a tutti i cittadini una chiave di lettura che renda più comprensibili i cinque quesiti, per orientare la nostra idea e per offrire un’indicazione di voto, su una materia così delicata; ferma restando la libertà di scelta del singoli elettori, compresa l’eventuale astensione, che, al momento, non ci sentiamo di indicare poiché il meccanismo dell’election day (il contemporaneo svolgimento, cioè, in diversi Comuni delle elezioni amministrative e dei Referendum), rende probabile il raggiungimento del quorum.
Inoltre, trattandosi di questioni molto tecniche, si è ritenuto opportuno premettere una breve analisi politica, che inquadri i veri obiettivi di questi referendum, seguita dall’esame nel merito di ciascun Referendum.
I REFERENDUM SULLA GIUSTIZIA
Lo scorso 16 febbraio la Corte costituzionale ha esaminato gli otto quesiti referendari proposti da Lega e Radicali e ne ha respinti tre: quello sulla cannabis, che ne prevedeva la depenalizzazione della coltivazione e dell’uso personale; quello sull’eutanasia, che concerneva il reato dell’omicidio del consenziente e quello sulla responsabilità diretta dei magistrati, che voleva introdurre la loro citazione in giudizio civile, per il risarcimento del danno.
A prescindere, dunque, dal merito dei tre quesiti (di cui non ci occuperemo ora, essendo stati ritenuti inammissibili, in una irrituale conferenza stampa del neo Presidente della Consulta, Amato), sui quali ci sarebbe molto da discutere, è qui necessario esaminare i cinque quesiti ammessi, poiché sono tutti relativi alla Giustizia e risultano complicati e oscuri, non solo per i cittadini, ma per gli stessi addetti ai lavori.
Occorre tener presenti, anzitutto, le ricorrenti richieste di pene più severe, di trattamenti penali più afflittivi e di riduzione delle garanzie giudiziarie, avanzate dalle destre nei confronti dei soggetti più deboli (immigrati, rom, senza tetto, soggetti marginali ecc.), contraddette dalla loro netta ostilità verso l’azione giudiziaria, quando colpisce colletti bianchi e ceto politico.
Lo sfondo, quindi, in cui questi referendum sono maturati è un mix di giustizialismo e garantismo a senso unico, tipico di forze politiche sostanzialmente connotate da una forte diffidenza per l’esercizio della giurisdizione, che si vuole “addomesticare” e assoggettare al potere politico, disattendendo il disegno costituzionale della divisione e della indipendenza dei poteri tra loro e, segnatamente, il principio dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura (art. 104 Cost.).
Diciamo subito, pertanto, che riteniamo che tutti e cinque i quesiti proposti non sono rivolti a realizzare una reale riforma del “sistema Giustizia”, né a tutelare diritti o domande di giustizia dei cittadini; ma mirano a  indebolire l’indipendenza del magistrato; a manipolare l’esercizio dell’azione penale, per sottoporre il PM al potere politico; a complicare la gestione del CSM;  a manipolare le carriere dei magistrati; a restringere l’azione penale nei confronti dei colletti bianchi e a garantire al ceto politico amministrativo, colpito da condanne penali, l’agibilità delle Istituzioni.   
C’è stato un tempo, infatti, in cui la Magistratura era spesso subalterna ai poteri politici, o ne era quanto meno condizionata e/o intimidita. Era il tempo in cui, in Italia, ogni inchiesta per corruzione, prima o poi, si arenava e non per le pur gravi carenze presenti nel Sistema Giudiziario; era il tempo in cui un km di metropolitana a Milano costava 190 miliardi di lire, e a Zurigo 50!
Questa situazione, che negli anni ottanta ha raggiunto il suo apice, ha ricevuto un duro colpo con le inchieste giudiziarie del ’92 e ’93, non a caso, definite “mani pulite”.
Ma, via via che si affievoliva “la spinta propulsiva” della rabbia popolare contro un ceto politico omertoso e corrotto, nata da quella breve stagione, si apriva un conflitto crescente sulla questione Giustizia, che, a partire dai continui tentativi di Berlusconi di sottrarsi ai processi, fino al perdurante ricorso al finanziamento illecito della politica, dura ormai da trent’anni.
In questo conflitto (una vera e propria guerra dei trent’anni!), sui media, nei partiti, nel variare dei sondaggi e degli interessi contingenti, si sono sempre più persi di vista gli interessi della stragrande maggioranza dei cittadini ad una Giustizia giusta, organizzata ed efficiente ed è emersa, in modo sempre più evidente, la volontà di metter mano ad un’ennesima riforma funzionale al sistema dato .
E’ capitato di recente, ad esempio, che, in nome dell’efficienza e della rapidità, la Ministra Cartabia (che continua a non rispondere ad una nostra innovativa proposta di legge sul sistema carcerario), abbia presentato in Parlamento una proposta di legge sulla riforma della Giustizia, molto simile a quella tentata nel 2011 da Berlusconi, che contiene la separazione delle carriere (funzioni) tra giudici e pubblici ministeri, l’eliminazione dell’obbligo di esercizio dell’azione penale da parte del PM (art.112 Cost.) e del principio fondamentale della terzietà del giudice (art. 111 Cost.).
Capita ora che si ripropongano in gran parte gli stessi contenuti della riforma Cartabia, su cui è già iniziata la discussione in Parlamento, con questi referendum, in una sorta di fuoco incrociato tendente ai medesimi obiettivi!
Analizziamoli nel merito uno per uno, attraverso un sintetico esame, al quale abbiamo ritenuto utile affiancare, con un allegato a parte, il testo integrale dei quesiti proposti, per un più facile raffronto con la nostra analisi:
1) RIFORMA DEL CSM
Questo quesito riguarda le modalità di presentazione dei candidati per l’elezione al CSM:
Attualmente i candidati, in ciascun collegio, vengono proposti da una lista di minimo 25 e massimo 50 magistrati. Il quesito elimina la lista e rende candidabile ciascun magistrato, senza l’appoggio di un gruppo di magistrati che lo sostenga. L’intento dei promotori è di marginalizzare il peso delle aggregazioni di magistrati (c.d. correnti) nell’elezione dei membri del CSM.  
Non ci pare condivisibile, sia perché il singolo magistrato, che non sia sostenuto da gruppi organizzati, non ha alcuna possibilità di essere eletto; sia perché l’elezione in un Organo costituzionale di autogoverno postula un confronto tra orientamenti culturali differenti; sia perché si tratta di una modifica irrilevante che non comporta alcuna riforma del CSM, ma solo l’allungamento della scheda elettorale.
Un quesito per noi inutile, dunque, che esprime solo un segnale politico di diffidenza verso l’associazionismo ed il pluralismo culturale della Magistratura.
2) EQUA VALUTAZIONE DEI MAGISTRATI
Questo quesito attiene alla valutazione professionale dei magistrati:
La Costituzione assegna al CSM tale valutazione, che decide anche sulla base dei pareri formulati dai Consigli giudiziari (art.105); tali Consigli sono Organismi territoriali simili al CSM, di cui fanno parte il Presidente della Corte d’Appello, il Procuratore generale, il Presidente dell’Ordine degli avvocati (membri di diritto), più magistrati, membri laici, avvocati, un Prof. universitario ed un membro eletto dal Giudice di Pace.
Tali pareri riguardano l’organizzazione e il funzionamento degli Uffici giudiziari (e solo per i componenti della Magistratura), la condotta dei magistrati in servizio e le pagelle relative all’avanzamento in carriera dei magistrati. I promotori chiedono che a tali valutazioni partecipino anche avvocati e docenti universitari (i c.d. laici).
E’ una modifica pleonastica, poiché già ora la legge prevede che i Consigli giudiziari “acquisiscano le motivate e dettagliate valutazioni del Consiglio dell’Ordine degli avvocati, avente sede nel luogo dove il magistrato esercita le sue funzioni”.
Dimodochè le motivate e dettagliate valutazioni coinvolgono tutti gli avvocati di quel territorio, attraverso il loro Consiglio, che li rappresenta.
Senza contare che l’estensione ai singoli avvocati del voto (che in aula potrebbero trovarsi davanti un giudice del quale possono influenzare la carriera, col loro voto), potrebbe perfino incidere sulla serenità e la terzietà del magistrato.
Anche in questo caso, dunque, esprimiamo una netta contrarietà, perché riteniamo che sia una modifica pericolosa e irrilevante, anche perché – quale che sia il parere dei Consigli giudiziari territoriali – l’ultima parola spetta al CSM, che decide.
3) SEPARAZIONE DELLE CARRIERE
Questo quesito obbliga il Magistrato a scegliere tra funzioni giudicanti e requirenti, per tutta la sua carriera:
E’ lunghissimo (oltre due pagine) ed è formulato in maniera illeggibile, perché si basa su un “taglia e cuci” di una decina di provvedimenti legislativi concernenti la tematica.
la Costituzione prevede che la Magistratura giudicante (i giudici) e quella requirente (i pubblici ministeri) fanno parte dello stesso ordine e che il PM gode delle stesse garanzie di indipendenza del giudice, di cui condivide il medesimo status (artt. 104 e 107).
Come detto in premessa, la tentazione di ricondurre il PM sotto il controllo del potere politico, prende forma in questo quesito, con la proposta di separare la carriera del PM da quella dei giudici; ma si scontra con il chiaro dettato costituzionale e con la legge che ha già stabilito una netta separazione delle funzioni fra magistratura giudicante e requirente ed ha assoggettato il passaggio da una all’altra a forti limitazioni: il passaggio è, infatti, consentito solo cambiando Regione, dopo 5 anni di servizio, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale ed è comunque soggetto al parere del CSM.
E’ un quesito che mira a mettere uno steccato tra le due carriere e ad allontanare il PM dalla cultura della giurisdizione, schiacciandolo di più sull’attività di polizia.
Esprimiamo, perciò, un giudizio di netta contrarietà perché non c’è alcun vantaggio per i cittadini, ma serve solo a porre la premessa per una qualche forma di controllo politico sull’esercizio dell’azione penale.
4) LIMITAZIONE DELLE MISURE CAUTELARI
Questo quesito non interviene sugli eventuali abusi della custodia cautelare, ma opera una drastica riduzione del campo di applicazione di tutte le misure cautelari (coercitive o interdittive):
I promotori lamentano che molti innocenti vengano privati della libertà senza aver commesso alcun reato, ma è un’affermazione falsa poiché la legge pone due condizioni imprescindibili per emettere una misura cautelare:
– devono sussistere gravi indizi di colpevolezza
– deve sussistere un pericolo concreto e attuale di reiterazione del delitto
Inoltre tali condizioni sono soggette al controllo, prima del GIP, che può respingere la richiesta del PM, e, successivamente, del Tribunale del riesame (detto anche e non a caso Tribunale della Libertà), le cui decisioni sono anche soggette a ricorso per Cassazione.
Nel caso pertanto che passasse questa modifica, verrebbe tolta ai giudici la possibilità di emettere misure cautelari coercitive o interdittive, basate sul pericolo di reiterazione del reato (ad eccezione di quelli per mafia e terrorismo), esponendo le vittime ed i soggetti più deboli a gravi rischi e a continui pericoli (si pensi, ad es., alle violenze in famiglia, al femminicidio o allo stalking!).
Inoltre salterebbe anche il divieto temporaneo di esercitare attività professionali o imprenditoriali, nel caso di reati di carattere patrimoniale e/o finanziario e di delitti contro la P.A.
Un vero colpo di spugna che, guarda caso, riguarda anche il finanziamento illecito ai partiti.
Siamo nettamente contrari, pertanto, a questo quesito perchè mira ad affievolire il controllo di legalità verso i reati dei colletti bianchi (corruzione, concussione, bancarotta fraudolenta, riciclaggio, inquinamento ecc.), rende meno incisiva l’azione di contrasto alla criminalità comune e restringe il perimetro del controllo di legalità, nei confronti di tutti gli altri fenomeni criminosi.
5) ABROGAZIONE DELLA LEGGE SEVERINO
Questo quesito va incontro alla diffusa insofferenza del ceto politico per il controllo di legalità e danneggia l’interesse dei cittadini alla corretta gestione della PA:
La legge Severino (D. Lgs. n. 235 del 31/12/2012) ha introdotto l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza automatica di parlamentari e membri del Governo, che subiscano condanne a pene superiore a due anni di reclusione, con sentenza definitiva, per reati non colposi.
E’ anche prevista l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza automatica per gli amministratori regionali, per i Sindaci o altri amministratori locali, che abbiano riportato condanna definitiva per gravi reati (come partecipazione ad associazioni mafiose) e per reati meno gravi (come l’abuso di potere o la violazione dei doveri di pubblico funzionario o di pubblico servizio).
Se la condanna non è definitiva, per gli amministratori locali, rei di delitti che prevedono l’incandidabilità, scatta la sospensione e la decadenza di diritto.
Solo in quest’ultimo caso, se il reato non è grave ed è connesso ad eventuale abuso di potere, si può ravvisare un punto critico nella sospensione di diritto degli amministratori locali, talvolta spinti a condotte non troppo ortodosse dall’emergenza di gravi problemi da risolvere (pensiamo alla vicenda di Mimmo Lucano).
Tuttavia il quesito referendario non affronta tali fattispecie, ma propone l’abrogazione tout court dell’intera normativa, che, viceversa, ha dato finalmente attuazione al principio costituzionale che recita…” I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore” (art.54).
Ciò posto, siamo contrari anche a questo quesito che, nell’assecondare la diffusa insofferenza del ceto politico per il controllo di legalità, danneggia irrimediabilmente l’interesse dei cittadini all’onestà dell’agire pubblico ed alla correttezza nella gestione della Pubblica amministrazione.
In definitiva, dopo questa disamina, ribadiamo la nostra iniziale convinzione che tutti e cinque i quesiti proposti non configurano, nel loro complesso, una riforma della Giustizia, ma piuttosto una riforma contro l’intero sistema della giustizia e contro l’uguaglianza e i diritti dei cittadini.
Smantellando, infatti, gli strumenti di controllo e di contrasto alla criminalità, non si opera una riforma della Giustizia, ma si assesta – in una fase in cui si registra una forte crisi di credibilità della Magistratura – un colpo mortale al progetto costituzionale, che ha voluto un giudice indipendente a garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini, e si finisce col favorire un sistema autoritario in cui le autorità di Governo controllano l’esercizio della giurisdizione.
L’autonomia e l’indipendenza della Magistratura sono i presidi fondanti dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla Legge e la nostra Costituzione non ha voluto e non vuole una Giustizia politica.
Per questo, se si deciderà di andare a votare, invitiamo i comunisti a votare NO.