Stile elettorale: da Cetto La Qualunque a Donald Trump, passando per Tarquinia

(s.t.) Secondo alcuni è decisiva, secondi altri un’inutile sovrastruttura, se non uno spreco di soldi; per alcuni è un’arte – degna di studi, approfondimenti, analisi e valutazioni – per altri semplicemente un lavoro: la campagna elettorale è solo uno degli aspetti che connota il successo – o l’insuccesso – di un’avventura politica, ma di certo è quello più appariscente.

E se in alcune situazioni globali e di forte mediaticità è quasi scientifico che incida sul risultato finale – basti pensare ai mitici spin doctor di americana memoria: se scegli quelli giusti anche Trump può diventare Presidente degli USA! –, in realtà dal maggiore contatto umano come Tarquinia le scelte strategiche su immagine, tematiche e comunicazione incidono in maniera minore, finendo per rappresentare da una parte un laboratorio interessante, dall’altra una vera e propria fabbrica di mostri mediatico-politici.

Nelle ultime settimane sei sindaci con stili diversi si sono confrontati e scontrati in una campagna elettorale senza esclusione di colpi, fatta di episodi a metà strada tra il serio e il faceto che rimarranno nella storia di queste elezioni: dai manifesti di un sindaco non sindaco a quelli con la città sbagliata sullo sfondo, dalle bandane ai vip, dal pedigree sulla origine dei candidati made in Tarquinia ai mitici carichi pendenti, passando per videomessaggi e orrori grammaticali

Protagonisti indiscussi Gianni Moscherini e il suo staff (voto 8, che fa media con un poco lusinghiero 2 in condotta). Tra scivoloni e genialate hanno dettato i tempi della campagna elettorale, rivolgendosi ad un target definito: quelli che non avrebbero mai votato il centrosinistra. Da più parti si è gridato alla macchina del fango e obbiettivamente non sono mancati eccessi censurabili. Ma le conferenze stampa a cadenza quasi giornaliera, i countdown sensazionalistici, lo show di Vittorio Sgarbi, la cena con Gabriel Garko e le serate stile Uomini&Donne, uniti ad un messaggio politico con un programma ricco di slide accattivanti – poco conta se copiate o difficilmente realizzabili –, si sono dimostrati un cocktail che ha incredibilmente funzionato: sfido chiunque anche solo ad immaginare Moscherini al ballottaggio quando è partita la sua avventura definita da molti, Mazzola in primis, un surrogato di Scherzi Parte! Moscherini “ha acceso il motore”, ma la benzina è forse finita prima del traguardo: soprattutto perché il carburante della prima fase – Ranucci e l’amministrazione uscente – si è dimostrato mediaticamente più performante di quello della seconda, contro Mencarini e la sua squadra. Un modello di successo, ma difficilmente riproponibile: una condotta che lascia strascichi e che, alla lunga, ha probabilmente anche stancato gli elettori.

Pietro Mencarini ha vinto, quindi ha avuto ragione lui: non so se ha trovato la “Chiave del cambiamento”, di certo ha scovato quella della vittoria. Partito in ritardo, sembrava addirittura un pesce fuor d’acqua: in una politica “faceboochiana” era infatti l’unico candidato senza un profilo social, ma supportato da candidati perennemente protagonisti proprio su Facebook. Ed in fondo questa è stata una delle chiavi del successo: lasciare che fossero gli altri a parlare di lui. Con comunicati stampa estremamente istituzionali, sempre lontano dalla bagarre, ha sfruttato il ruolo di salvatore della patria tarquiniese al ballottaggio portando a casa un risultato bulgaro. Voto 7 di stima per una campagna elettorale ordinaria (forse era quella che serviva), con l’idea che comunque il suo nome, più di ogni altra cosa abbia fatto la differenza, superando anche l’imbarazzo iniziale della questione Fanucci (voto 8 per l’intelligenza dimostrata con il suo passo indietro e il suo silenzio).

I Cinque Stelle ed Ernesto Cesarini (voto 5 senza stelle aggiuntive) sono risultati poco visibili: semplicemente non hanno fatto i Cinque Stelle, lasciando campo, temi e forse anche un pezzo di elettorato a Moscherini. Bastava poco per il ballottaggio, con una campagna elettorale più aggressiva l’impresa era possibile. Discutibile, inoltre, la scelta di non partecipare ai confronti pubblici per un movimento che della diretta streaming aveva fatto un mantra. Hanno il merito di aver portato l’unico politico di livello nazionale a Tarquinia, e peraltro in piazza: la serata con Di Battista è uno dei momenti più alti della campagna elettorale. Ma letale, proprio in quei giorni, potrebbe essersi dimostrato l’annuncio della giunta in anticipo: visti i nomi forse qualcuno ha “voltato pagina”.

La primavera per Tarquinia non c’è stata, ma indubbiamente Isabella Alessandrucci è una delle rivelazioni di questa tornata. La foto tra i fiori gialli compensa un simbolo non del tutto accattivante, almeno a livello grafico. Poche risorse economiche, ma tanta buona volontà: una volta aggiustato il tiro dopo gli iniziali comunicati stampa iper-formali è apparsa credibile nel messaggio, scegliendo di parlare di sé e non degli altri, apparendo mai polemica ma spesso propositiva. Merita un 7,5 convinto: senza l’anomalia Moscherini avrebbe ottenuto un risultato a quattro cifre e con grande stile.

Renato Bacciardi passerà alla storia di questa campagna elettorale per la foto con bandana in testa, ma sarebbe inglorioso limitarsi a questo. Un caffè con Renato, la lista tematica su San Giorgio, il lancio dei candidati più rappresentativi sono state novità intriganti; ma non sufficienti, anche se il risultato elettorale non è da buttare via. Difficile dire se poteva fare di più, ma di certo non è stato protagonista di questa campagna elettorale finendo anche nell’equivoco della mancata partecipazione ad una conferenza stampa con un diretto competitor dalla dubbia utilità. Il “Patto civico” si è sciolto al ballottaggio con un rompete le righe che aveva il sapore della fuga per la vittoria. Voto 6.

Senza Voto la campagna elettorale di Anselmo Memmo Ranucci e del PD: c’è quasi l’impressione che non ci sia proprio stata. Lontano dai confronti organizzati (lo è stato, in verità, anche Mencarini) non si ha memoria di iniziative pubbliche, da sempre vero motore della campagna elettorale del centro sinistra. È stato il vero bersaglio dei suoi avversari in quello che, di fatto, è diventato un tutti contro uno; il che era però prevedibile, essendo da sempre il destino dei più forti. Il caos mediatico su incandidabilità o ineleggibilità ha puntato i riflettori su argomenti che hanno costretto sulla difensiva una compagine che veniva da dieci anni di governo: anche in conseguenza di questo la scelta minimal improntata all’austerity non ha davvero pagato, vedi nessuna cena elettorale ed i toni eccessivamente dimessi che hanno dato l’idea di un vittimismo innaturale. Una campagna elettorale a vista, insomma, che non ha evitato qualche scivolone, a partire dall’ormai mitologica frase con cui Mazzola ha spiegato come tutte le altre liste facessero schifo: un vero e proprio regalo agli avversari. Il candidato più social dei sei, insomma, è quello che forse ha sfruttato meno lo strumento, troppo attento alle polemiche e troppo poco al messaggio: i video sulle cose fatte hanno radicato la campagna elettorale sui dieci anni trascorsi senza parlare chiaramente dei cinque che dovevano venire, e ha fatto storcere la bocca anche lo slogan “Tarquinia sei il mio partito”, in un periodo in cui la parola partito ha un effetto boomerang. Con una campagna elettorale più presente il ballottaggio era davvero a portata di mano, e resta il mistero del Presidente Zingaretti, pronto a far da supporter in tutti i comuni della Tuscia che andavano al voto tranne che a Tarquinia.

Alla fine, comunque, chi vince ha sempre ragione e forse la campagna elettorale è solo un’invenzione inutile che rende felici tipografie, ristoranti e qualche elettore che non manca di festeggiare prima, durante e dopo; saremmo curiosi, però, di conoscere quanto i vari candidati hanno “investito” in queste elezioni.