di Anna Alfieri
Invece, poco tempo più tardi, Giorgio Bassani rispolverò il manoscritto perduto e lo sottopose a Giangiacomo Feltrinelli, marxista assoluto ma comunista un po’ eretico e soprattutto editore coraggioso e imprevedibile che, nel 1958, lo pubblicò. Prima duemila timide copie, poi altre duemila, poi quattromila e quattromila ancora, fino a raggiungerne, sull’onda di un successo clamoroso, parecchie decine di migliaia.
Fu un’esplosione, una battaglia senza esclusione di colpi, una guerra furiosa perfino all’interno della stessa sinistra, uno sconquasso al quale lo Strega, il Premio più prestigioso e ambito d’Italia, rischiò di non sopravvivere. Ma proprio in quel momento preciso, delicatissimo e cruciale, il nostro Vincenzo Cardarelli entrò in scena alla grande; anzi, alla grande ne uscì perché, vecchio ed esausto, morì. Morì il 27 giugno 1959 e, siccome era un poeta sublime, la sua “assenza – come avrebbe potuto dire lui stesso – tumultuò nel vuoto che aveva lasciato, come una stella”. Le armi furono temporaneamente deposte, i clamori cessarono per un po’, la litigiosa comunità letteraria italiana si racchiuse silenziosamente in se stessa e Maria Bellonci, scrittrice ma soprattutto fondatrice del Premio in questione e sua sacerdotessa officiante, improvvisamente capì.
Capì che l’occasione più adatta per salvare il suo Premio – e con lui anche il Gattopardo – sarebbe stata quella del funerale del nostro poeta. Sapeva infatti, la Bellonci, che intorno al corpo del Grande Vecchio si sarebbero presto riuniti, in gramaglie, tutti i maggiori letterati d’Italia e sperò che un eventuale ed estemporaneo, ma luttuoso dibattito sulle candidature al Premio avrebbe impedito, come in un film di Monicelli, che tra un ricordo e un requiem aeternam qualcuno (Alicata? Moravia?) trascendesse e venisse alle mani con i sostenitori di Lampedusa che in realtà non erano pochi.
Lo so con certezza, perché lì c’ero anch’io, ragazzetta attenta e curiosa, ovviamente accompagnata da mamma e papà a salutare per l’ultima volta il poeta. Una ragazzetta piena di rispetto, ma anche un po’ ardita che si azzardò perfino a firmare, tra tanti nomi forestieri e nostrani, il registro funebre. Cioè un quaderno dalla fodera rigida e nera che negli anni successivi avrei cercato invano in tutti gli archivi locali, pubblici e privati, ma del quale, in questo nostro paese nobile ma assai smemorato, non avrei trovato più alcuna traccia. E fu un peccato, perché quel volumetto nerissimo che portava perfino la mia firma quasi infantile avrebbe testimoniato che, in quelle ore strane e fatate, qualcosa di importante era accaduto accanto al corpo silenzioso del Poeta, il quale finalmente riposava nel paese dai lui amato e odiato con tanta passione.
Non so cosa si dissero i nostri scrittori, ma so che, qualche giorno dopo quella tarquiniese notte speciale, la candidatura del Gattopardo al Premio Strega, presentata da Mario Soldati, venne accettata “quasi” serenamente e so anche che, nonostante gli ultimi violentissimi colpi di coda sferrati dagli indomabili Moravia, Pasolini ed Elsa Morante che non smisero mai di opporvisi, il romanzo trionfò. A raccogliere il Premio Strega 1959 in rappresentanza del nipote defunto, al Ninfeo di Villa Giulia, c’era l’ultranovantenne zio Pietro, marchese della Torretta, “bellissimo di anni come una preziosa maiolica antica e delicata”, ultimo testimone vivente di quel mondo lontano che Tomasi di Lampedusa aveva ormai reso immortale.
Alcune notizie di questo articolo, a parte la mia personale testimonianza, sono tratte dal volume di Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice, “Operazione Gattopardo, come Visconti trasformò un romanzo di destra in un successo di sinistra” – Casa Editrice LE MANI. Recco 2013.