I caraciani: breve digressione alla scoperta di un pezzo di storia cittadina

di Piero Nussio

In questi giorni di eccezionale “callaccia” l’unico sollievo è dato dal marino che – ad ore canoniche – si insinua lungo la strettoia del Corso, a Tarquinia, e ne rinfresca la sosta. Sosta che trova la sua migliore realizzazione nei tavolini del bar Impero e nel gradone posto di fronte, fra il muro del palazzo Vitelleschi e la statua natico-ostensiva di Emilio Greco.

Dicono gli anziani che lì si raffrescano che quello era il gradone dei “caraciani” che, oculati come da tradizione, preferivano sedersi lì che ai tavolini del caffè.

Ed io, che forse sono in parte anche caraciano perché nipote del sor Silvio Stramacci, ho deciso di dedicare a lui – ed alle caramelle che mi regalava dopo averle vinte a scopone nella saletta delle carte dell’Impero – questa ricerca: chi e cosa erano i “caraciani”?

Tutti i tarquiniesi dicono di saperlo: i caraciani erano i pastori scesi da Visso e dal resto dell’Appennino centrale e arricchiti a Maremma per la gran voglia di lavorare e la tirchieria connaturata. E subito si aggiunge l’aneddoto di quel proprietario terriero che, deluso dal figlio poco accorto, chiede alla moglie di friggergli un uovo, «anzi, due, che mi voglio mangiare tutto il capitale!».

I tarquiniesi-cornetani applicavano rigorosamente la politica economica del “ragno-ragno” (“Tanto m’abbusco, tanto me magno”) e quindi si facevano beffe dei marchigiani che, secondo loro, “avevano il braccino corto”. Il termine “caraciano” era una parola dialettale nata proprio per prenderli in giro.

Cosa però significasse letteralmente quel termine, è un mistero che si perde tra le nebbie del secolo scorso. L’unica fantasiosa risposta l’ha data Titta Marini, per bocca di Ettore Palma: «Popolazione di ceppo indoeuropeo, dedita al nomadismo e alla pastorizia, provenienti dalla zona di Karachi, da cui il nome “karaciani”».

E il grande padre Titta non aveva poi di molto sbagliato facendoli pakistani: poco più avanti fra i monti del Caucaso esiste davvero una popolazione dei caraciani, fra i ceceni e gli ingusci, gli osseti e i georgiani, gli armeni e i circassi, i kazaki e gli abkazi, gli àvari, gli azeri e i ciabardini.

Ovviamente però i “nostri” caraciani non hanno nulla a che vedere con i pakistani e le popolazioni del Caucaso, ma molto più nostranamente con le vicissitudini dell’agricoltura, gli obblighi della transumanza e l’interscambio delle popolazioni fra la costa tirrenica e l’appennino.

La vera risposta alla mia domanda me l’ha data un libro su “Montebello di Tuscania” scritto da Dante Cosi e pubblicato a Macerata nel 2011. «Oltre ai pastori sulle terre di Montebello vi erano i cosiddetti caraciani (o boattieri), talvolta tuscanesi, che affittavano una quantità di terra variabile a seconda del carico di bestiame da lavoro (buoi) di cui disponevano, e che praticavano una rotazione triennale (grano; biada; riposo)».

Dunque al temine dialettale caraciani corrisponde la parola italiana boattieri che così viene definita nell’uso dell’Italia centrale: Proprietario di buoi, con i quali lavora a pagamento anche terreni altrui (diz. Hoepli), Chi dietro compenso lavora la terra altrui con le proprie bestie (diz. Garzanti).

Detto in termini moderni, i caraciani sarebbero dunque una forma primitiva di quello che sono i cosiddetti “conto-terzisti”, cioè quegli agricoltori che con i propri trattori e mietitrebbie lavorano per i possidenti terrieri che non svolgono direttamente i lavori agricoli.

Solo che un trattore o una mietitrebbia hanno bisogno di un po’ di nafta e un capannone per l’inverno, mentre i buoi hanno bisogno di essere curati e mantenuti. E se pure sono allevati allo stato brado, hanno bisogno di “lestre” nella macchia dove essere raccolti ed accuditi.

Il sito internet della Regione Lazio riporta come siano nati questi “usi civici” fondamentali per l’allevamento del bestiame: Le università agrarie rappresentano ambiti a forte valenza sociale ed economica per le popolazioni residenti che hanno sempre fruito delle risorse naturali ivi esistenti per le proprie esigenze economiche e sociali. Università agrarie della nostra Regione sono l’espressione della storia delle comunità laziali, ed in particolare della storia agricola del territorio e della civiltà contadina, infatti costituiscono la prosecuzione e la regolamentazione ottocentesca di arti agrarie del secolo XV o delle società dei Boattieri.

Di nuovo bisogna far ricorso a Toscanella per trovare una conferma dell’equivalenza fra caraciani e boattieri, nelle note che il cavalier Luigi Tei dedica alla festa di S. Antonio abate: A Tuscania agli inizi nasce come festa dei “Caraciani”, i proprietari di bestiame, che il 17 gennaio offrono un pranzo gratuito ai propri dipendenti. Nella ricorrenza si tiene peraltro la fiera del bestiame. La mattina essi portano il bestiame e gli animali domestici, adornati a festa con nastri colorati, presso il sagrato della chiesa del Riposo, ove il sacerdote recita la formula della benedizione, e successivamente li asperge con l’acqua benedetta.

Ed è ancora il libro su Montebello che distingue con attenzione i caraciani dai pastori dell’appennino: Sopravviveva il mondo della masseria con migliaia di pecore dei pastori montagnoli che ancora calavano (dall’Umbria e dalle Marche) a svernare in Maremma, da settembre a giugno. Pastori che si acquartieravano, come ai tempi della “Dogana del bestiame” nei terzi di terreno a pascolo, facendo vita solitaria nelle capanne.

[A Montebello] Intorno all’azienda agricola centrale e alle sue strutture produttive (che occupavano almeno venti salariati fissi, residenti con famiglia) e ai poderi a mezzadria (che tra mezzadri e familiari raggiungevano le ottanta unità) ruotavano, così, circa altre duecento persone, tra braccianti, montagnoli e caraciani.

Da questa descrizione, molto secca e precisa, viene chiara l’immagine di un mondo agricolo molto frequentato e ripartito: il centinaio di salariati e mezzadri che costituivano la “popolazione fissa” del borgo di Montebello vedevano arrivare un’invasione di braccianti e allevatori, con le loro bestie, i carri e le masserizie, mogli, figli e pentolame. Un branco di conto-terzisti che venivano a coltivare le terre circostanti. E come i Sioux che che videro arrivare nel west i carri dei pionieri, è normale   che li abbiano battezzati “carraciani”, che li considerassero mezzi zingari, e che avessero comunque di quella gente rude un timore reverenziale.