Francesca Castignani racconta se stessa e Belle Hélène: “La molla di tutto? La felicità che vedo in chi assaggia ciò che creo”

(s.t.) “Guardavo gli altri mangiare le cose che avevo preparato per loro e li vedevo felicissimi. Ecco, è quella sensazione, quella felicità per le emozioni che le cose che avevo fatto trasmettevano che mi ha fatto pensare potesse essere la strada della mia vita”.

Parlare di felicità seduto a un tavolo di Belle Hélène con in mano un macaron alla gianduia appena morso è sin troppo semplice, e chi ama i dolci legherà sempre quell’emozione alla vetrina di una pasticceria in cui si è appena entrati. Quello che non si pensa, forse, è che proprio quella felicità genera la forza motrice da cui quelle dolci creazioni nascono. A spiegarmelo, dall’altra parte del tavolo, è chi, a Tarquinia, ha fatto del macaron un must, ha rivoluzionato – o contribuito a farlo – il gusto e lo spirito critico dei suoi concittadini e portato il nome della città, assieme al suo marchio, sulla bocca degli amanti della pasticceria di tutta Italia.

Cioè Francesca Castignani, che ormai dodici anni fa assieme a Enrico ha inaugurato un luogo che, ai clienti che varcano la porta su via Garibaldi, dà la sensazione di vivere un angolo di Francia, arrivando passo dopo passo ai vertici della pasticceria italiana. Partendo da un’idea, anzi una sensazione: la felicità, appunto.

“Armeggio in cucina sin da bambina, con i dolci e non solo – spiega Francesca – e già ai tempi del liceo classico, a casa, per Pasqua, Natale e nelle grandi occasioni, volevo preparare tutto io, dalla cucina all’apparecchiatura. La sensazione che mi restava addosso nel vedere tutti così felici nel mangiare quello che avevo pensato e realizzato è probabilmente la molla da cui è partito tutto. Se ci aggiungi che mi è sempre piaciuta l’idea di avere un locale tutto mio, abbiamo tutti gli ingredienti!”.

D – E in una vita davvero vissuta in mezzo ai dolci, ce n’è uno in particolare che ami più degli altri?

R – “A dirla tutta, io sono più per i dolci da forno, dal panettone, al croissant, alle crostate. Non troppo da creme, insomma. Ma che sia chiaro: mangio tutto eh, e mi piace tutto! Però se mi chiedi una cosa specifica, tendo più verso cose quasi casalinghe: è stato sempre un po’ così. Io poi ho la passione per i lievitati e non so se mi piace così tanto farli perché amo mangiarli o viceversa!”

D – Credi sia anche questo qualcosa che nasce tra i ricordi di odori e sapori di casa, da bambina?

R – “Forse sì, e come ti dicevo ho iniziato prestissimo a cimentarmi in cucina e con i dolci: in terza elementare già li facevo a casa e probabilmente anche questo incide. Ma te lo ripeto: non è che se mi dai una cosa con le creme non la mangio, anzi!”.

D – Ma la strada che dai primi dolci infornati a otto anni ha portato al top della pasticceria italiana, certificato da guide e riconoscimenti, ha seguito un percorso lento, fatto di fatica, applicazione e – anche se non molti lo sanno – di una deviazione dal dolce… al salato (e ritorno).

R – “Vero, ma più per vicende di vita che altro. – spiega Francesca – Sin da piccola, come ti dicevo, a casa con mia mamma vivevo la mia predilezione per i dolci, anche perché credo sia quella la mia indole: la cucina è, come dire, più istintiva, mentre la pasticceria ha regole precise da seguire, e io tendo a essere più così. Ma quando ho scelto questa strada i corsi di pasticceria praticamente non esistevano: a Roma c’erano due solo scuole di cucina, io andai in una di esse per prendere un attestato e iniziare”.

La svolta, il ritorno al primo amore, arriva qualche tempo dopo, in uno dei luoghi più noti e prestigiosi della ristorazione romana e Italiana. “Dopo vari stage e assunzioni, entro assieme a un’altra stagista alla Pergola, da Heinz Beck, a Roma. – racconta – Io ero agli antipasti, ma l’altra ragazza non si trovava bene in pasticceria e ci hanno scambiato: da allora, è stato un percorso ininterrotto”.

D – Ecco, Beck, una delle figure di riferimento, una delle persone che hanno lasciato in segno in questo percorso: sbaglio?

R – “Guarda, lui è una figura molto dura: quando ero lì spesso alcune cose non le capivo, per me erano proprio inconcepibili. Col tempo, invece, ho capito quanto fosse giusto ciò che pretendeva, ciò che si aspettava, i suoi obiettivi, e di conseguenza anche io sui suoi modi ho cambiato idea. Poi ha un palato eccezionale e una forza incredibile nello studio costante”.

D – Poi Parigi, Pierre Hermé, un monumento della pasticceria mondiale.

R – “L’esperienza in Francia ha cambiato tutto, non solo professionalmente, anche umanamente. Mi ha fatto appieno capire come comportarsi in un laboratorio, ma anche in generale a lavoro: il rispetto, l’organizzazione, il darsi degli orari. Anche se con molti dei colleghi eravamo amici fuori dal lavoro, la regola era che in laboratorio ci dessimo del voi, perchè non doveva mai succedere che si perdesse la formalità, anche in un’eventuale discussione. Quando arrivavi, dovevi stringere la mano e dire buongiorno a tutti, solo allora ti davano le mansioni. Ho mantenuto molto di quel modo di lavorare, magari con meno formalità: in laboratorio siamo così pochi e i ragazzi sono come una famiglia, darci del voi sarebbe ridicolo!”

“Appena arrivata, da stagista, – continua Francesca – ho avuto la fortuna di lavorare con una ragazza giapponese e un pasticcere basco che mi hanno subito voluto bene: con loro è stato relativamente veloce passare dal non saper fare nulla al saper fare abbastanza e per loro ho e avrò sempre gratitudine infinita”.

D – E Pierre?

R – “Una persona di enorme cultura e enorme preparazione, con un’incredibile conoscenza degli ingredienti e la voglia di applicarsi in una costante ricerca di associazioni. Tutto, ogni idea, usciva da lui: ogni volta che veniva dava degli stimoli enormi”.

D – L’idea che esce da questa chiacchierata è un percorso la cui enorme luce che brilla ora passa da un bel po’ di fatica.

R – “Il mio percorso è stato lentissimo, non solo qui a Tarquinia dopo l’apertura, ma in generale nelle aziende in cui ho lavorato. Spesso vedevo persone attorno a me ottenere salti di livello, promozioni ecc., in alcuni momenti è stata dura. Ma credo che sia proprio dalla capacità di vivere le difficoltà, dall’avere pazienza nella costanza, che ci si formi come persone e come professionisti”.

D – C’è, in questi anni, un dolce realizzato in un’occasione speciale, magari una cerimonia, che ti ha emozionato in modo particolare?

R – “La risposta si lega al discorso di poco fa. Lo scorso anno ho partecipato a un evento a Milano, “Identità golose”, e il tema di fondo era il lavoro. Ho presentato una rielaborazione di un dolce già fatto a uno show cooking qui nella Tuscia, su input di Carlo Zucchetti che aveva proposto, come tema, “I legumi in pasticceria”, che come base ha i fagioli del Purgatorio, una specie che per un periodo nemmeno si produceva più, per l’impegno che comporta. Al dolce ho legato una frase di una canzone di De André – Dai diamanti non nasce niente – Dal letame nascono i fior – e tutto per me si ricollega al fatto che spesso, quando fai una cosa, i percorsi da seguire sono molto difficili prima di avere soddisfazioni. Era un periodo particolare, avevo da poco detto addio a mio papà, avevo dovuto affrontare un intervento, e in quel ricordo c’è tanta emozione e tanto significato”.

“E ci aggiungo una cosa. Nei miei primi anni qua avevo un’ignoranza quasi totale sui prodotti del territorio, praticamente conoscevo e usavo solo le nocciole dei Monti Cimini: ero al buio totale, nemmeno ci pensavo a scoprire se ci fossero prodotti in zona che potessi rielaborare. Credo in generale non ci fosse ancora nemmeno troppa cultura del prodotto locale. Invece, piano piano, ho scoperto cose straordinarie a due passi da casa e quel dolce è emblema anche di questo: oltre ai fagioli, ci sono la ricotta di qua, le nocciole dei Cimini e olio d’oliva. C’è casa, c’è il concetto del difficile, alla fine di un anno difficile”.

D – Un’ultima curiosità. La televisione ormai bombarda di programmi sulla cucina, pasticceria inclusa. Che idea te ne sei fatta?

R – “Hanno cambiato e cambiano molto, e come sempre ci sono aspetti positivi e altri meno. Secondo me, ad esempio, hanno fatto tanta cultura: tredici anni fa sarebbe stato impensabile far pagare oltre 30 euro per un panettone, e il merito della TV è stato anche di far capire a molti la differenza tra prodotto e prodotto, l’importanza della qualità nelle materie che si usano e nelle competenze che si impiegano. Certo, ha reso la clientela più esigente, ma dal mio punto di vista non credo sia un male e anzi, trovo giusto che si pretenda molto da un prodotto che si paga di più. Poi per noi avere una clientela anche curiosa è una soddisfazione, uno stimolo: al sabato, quando lanciamo le novità, ci sono clienti che corrono a indagare cosa proponiamo, e ci fa piacere. Se devo parlati di un aspetto negativo dei programmi TV, è sul lato della professione, del lavoro, perchè forse hanno generato aspettative sbagliate in chi si approccia a questo mestiere. Oggi in molti, troppi, si immaginano una carriera rapida e veloce. Non è così e, come dicevamo prima, la gavetta è lunga. A Parigi per sei mesi ho fatto solo crostatine: e se potrò ancora dire grazie a chi mi ha formato così, lo farò di nuovo. Mi ha dato una base di preparazione e una sicurezza che non avrei mai acquisito”.