





Riceviamo da un lettore e pubblichiamo
Spinti dalla tregua meteorologica pasquale, ci siamo avventurati alla scoperta dell’enigmatica chiesetta rupestre di Santa Restituta, con una tappa “obbligata” all’acclamata Ara della Regina di Tarquinia, tempio etrusco utilizzato in antichità per celebrare riti e preghiere. Uno dei ritrovamenti archeologici piu importanti della zona. Già l’approccio, attraverso una “pittoresca” stradina bianca, avrebbe dovuto allertarci, ma l’illusione di un fascino rustico è svanita bruscamente di fronte a un parcheggio dalla segnaletica latitante.
L’Ara della Regina: tra fasto sbiadito e lucchetti da bicicletta
Possibile che questo sia l’ingresso al cuore pulsante dell’archeologia tarquiniese, la culla dei celeberrimi cavalli alati? Niente biglietterie accoglienti, né maestose vestigia ad anticipare la grandezza. Solo una strada sbarrata e un cartello riassuntivo, unico faro in un mare di indicazioni incomprensibili.
Decisi, ci incamminiamo e raggiungiamo l’Ara della Regina. Immaginiamo la possanza di un tempio, intuibile persino dalle pietre superstiti. Peccato che a “proteggere” tale magnificenza ci sia un’ordinaria staccionata in legno, sigillata da un prosaico lucchetto da bicicletta. L’incuria del verde circostante è palese e la mancanza di servizi igienici trasforma la sacralità del luogo in un imbarazzante scenario per “bisogni” urgenti.
Il lucchetto, prevedibilmente, non scoraggia gli avventori che, con una sorta di “benedizione” divina auto-attribuita, scavalcano l’ostacolo e calpestano l’antica dimora della Regina, la quale, immaginiamo, si starà interrogando sul trattamento riservato alla sua memoria.
La disperata ricerca di Santa Restituta: tra fili spinati e cani famelici
Abbandoniamo gli “scalatori” dell’Ara per inseguire il miraggio di Santa Restituta. Ahimè, la santa dovrà attendere. Le indicazioni rabberciate, collocate a casaccio, le tabelle corrose dal sole e quindi illeggibili, i precipizi privi di protezione, i fili spinati minacciosi e i pastori maremmani dall’aria poco raccomandabile ci hanno convinto a una ritirata strategica.
Certo, gli occhi hanno goduto di panorami mozzafiato, di un silenzio rigenerante. Peccato che tali meraviglie siano state contornate dal rischio concreto di essere le ultime esperienze sensoriali della nostra esistenza.
Un appello disperato per la Tuscia
Ora, al di là della disavventura, sorge spontanea una riflessione: come può una comunità che ambisce al turismo permettere una gestione così negligente di un patrimonio culturale di tale portata, spesso sbandierato come fiore all’occhiello insieme a Monterozzi? Non è pensabile investire una cifra modesta per rendere questi luoghi sicuri e accessibili? È come se Roma ostentasse San Pietro e lasciasse il Colosseo in balia di staccionate fatiscenti e lucchetti, alla mercé di turisti incivili.
Sarà ingenuo crederlo, ma un’area sistemata e fruibile giustificherebbe un biglietto d’ingresso, risorsa fondamentale per la manutenzione ordinaria. Allo stato attuale, l’unica “assicurazione” sensata da richiedere sembra essere una polizza sulla vita obbligatoria per chiunque osi avventurarsi in questi luoghi.
Lettera firmata
