In ricordo di Angelo “Brigetto”

Nell’anniversario della sua scomparsa, trentaquattro anni fa, ci fa piacere ricordare Angelo Jacopucci con una foto, messa a disposizione dall’amico Renato Rosati, e riproponendo il ricordo di Marino Ceccarini con il quale, quattro anni fa, L’extra “cartaceo” celebrò il nostro campione.

Dicevano che, sul ring, scappava perché non aveva coraggio. Che voleva mantenere il viso bello e pulito. Ma altro che paura… Quando lo vedevo salire sul quadrato, combattere contro certi avversari, capivo con estrema chiarezza che Angelo era di gran lunga il più coraggioso di tutti noi: perché nessuno – tra chi era lì a vederlo combattere – avrebbe mai avuto l’audacia per affrontare gente di quella stazza, di quella cattiveria, di quella fama pugilistica, nemmeno se ci fossimo trovati in quattro o cinque contro uno.

Ricordo il suo incontro contro Kovac: un pugile massiccio, dell’est, oltre duecento incontri alle spalle, già medaglia olimpica, che quando combatteva metteva paura e sembrava caricare come un toro. Eppure Angelo, quando lo affrontò, lo distrusse senza subire un solo colpo. Lo fece impazzire, evitando ogni carica e colpendo ogni volta che, anche un po’ frustrato, l’avversario andava a vuoto.

Quella sera, man mano che prendeva il ritmo all’avversario, Angelo cresceva in fiducia e iniziò a dare spettacolo coi suoi movimenti sul ring: quasi ballava nello schivare i colpi, nell’invitare l’avversario ad attaccare per sbilanciarlo e poi colpirlo. E noi, lì sotto, impressionati a guardarlo sapendo che, se Kovac l’avesse preso anche una sola volta, l’avrebbe steso di sicuro.

La stessa sensazione che si ebbe vendendolo incrociare i guantoni, in allenamento, con Carlos Monzon. A Roma per un incontro, al puglie argentino servivano degli sparring partner. Angelo salì sul ring dopo che Monzon aveva quasi distrutto, in due riprese di scambi, il più quotato Calcabrini; dopo che Brigetto lo mandò a vuoto per sei o sette volte, il campione si fermò e, infastidito, chiese di boxare con un altro pugile: a lui serviva di colpire e Angelo, col suo stile di boxe, non s’era fatto prendere mai!

Quello, in fondo, era il coraggio di Angelo: combattere a quei livelli nonostante un fisico leggero, che, ancora nei primi anni di palestra, faceva sì che, al mare, non volesse nemmeno togliersi la maglietta. Muoversi con abilità, rapidità, destrezza; colpire con precisione e tempismo; vincere senza subire un colpo: era il suo modo di combattere, il suo stile, nato non dalla paura ma dalla fatalmente corretta consapevolezza che, a gettarsi a viso scoperto nello scontro, c’avrebbe rimesso ben più del suo bel viso.

Boxare cosciente dei suoi limiti, lavorando in palestra e sul ring con la costanza, l’impegno, la passione di chi, nel pugilato, vedeva qualcosa di più di uno sport: anche un modo per quasi riscattarsi, per far cambiare idea a coloro – e non erano pochi – che continuavano a guardarlo col pregiudizio del ragazzo sbandato, che ne mettevano in dubbio, più che le doti di pugile, quelle di uomo e che, forse, aspettavano il suo passo falso per ricordargli che non era nessuno.

La portava sempre dentro questa voglia di dimostrare, un desiderio che, in fondo, era anche amore per Tarquinia: negli allenamenti, nei ritiri, nei combattimenti, nelle serate di festa cogli amici cui ha rinunciato perché, la mattina successiva, doveva svegliarsi presto per correre o allenarsi. Probabilmente è questo desiderio di sentirsi accettato anche dalla sua Città che, quella sera contro Minter, l’ha spinto a cambiare il suo stile ed il suo modo di fare pugilato. Il modo migliore che Tarquinia ha per onorarlo è, perciò, ricordarne proprio questo coraggio: quello di un ragazzo capace di mettersi in gioco anche per la voglia di sentirsi riconosciuto.

L’ultimo ricordo, quindi, è di un emblematico momento di festa quando, di ritorno dopo la vittoria del titolo europeo, a Milano, contro Sterling, la gente di Tarquinia lo accolse, numerosa, in piazza Matteotti. Arrivato lassù, dopo il bagno di folla che lo salutava, trovò ad attenderlo il Sindaco, il Maresciallo dei Carabinieri ed il Comandante dei Vigili Urbani: un po’ i simboli di quell’autorità, di quel modo di pensare convenzionale con cui lui, guascone e coi capelli lunghi, aveva avuto non pochi problemi di convivenza. Allora, proprio con quel suo modo di fare, indicandomi con lo sguardo quei tre in fila che l’aspettavano mi disse: “A Marì… Hai visto Brigetto che t’ha combinato?”

Marino Ceccarini