Festa della Liberazione, Tarquinia celebra il 25 aprile – Le FOTO ed il discorso di Tiziano Torresi

Si è svolta stamani a Tarquinia la Celebrazione del 71° Anniversario della Liberazione. Alla cerimonia hanno presenziato le autorità civili e militari del territorio e le delegazioni delle Associazioni Combattentistiche, d’Arma e della CRI. Il discorso commemorativo iniziale è stato tenuto da Tiziano Torresi, Segretario nazionale del MEIC. Di seguito ne pubblichiamo il testo, a coda le foto della mattinata.

Liberazione_2016-4La Festa della Liberazione è un anniversario scomodo. Persino nelle liturgie civili e nella sensibilità nazionale l’Italia si rivela Paese singolare e le ricorrenze principali del suo patrio calendario, come già da tempo messo in luce dagli studiosi, hanno conosciuto una storia controversa ed accidentata, puntualmente segnata da entusiasmi e retorica, polemiche ed incomprensioni ideologiche. Ieri esse si mescolavano sulla carta stampata e nel chiacchiericcio televisivo. Oggi dilagano nel mare magnum di internet, dei post e dei cinguettii d’occasione. Ma il 25 aprile è, a mio modo di vedere, un anniversario scomodo per un’altra ragione. La figura di Domenico Emanuelli, attorno alla quale idealmente, come ogni anno, ci siamo adunati, può considerarsi un’eloquente testimonianza.

Settantuno anni fa si compiva la liberazione dello spazio geografico dell’Italia dall’occupazione nazista e la definitiva liberazione del più vasto ed immateriale spazio pubblico dal regime fascista, sopravvissuto sotto le spoglie repubblichine. Da tempo la storiografia, con efficacia e senza il clamore polemico della cronaca, è al lavoro per ricostruire la mappa degli influssi formativi che hanno agito nelle scelte resistenziali, cercando all’interno di questi percorsi gli elementi che hanno sostenuto le coscienze nel momento di prendere posizione dinanzi allo sfascio della patria. Gli studi hanno ampliato la prospettiva sul fenomeno della Resistenza non soltanto come un fatto ideologico circoscritto, ma come un processo ricco di sfaccettature, nelle molteplici forme, non sempre armate, che assunse l’opposizione al nazifascismo. Questo allargamento di prospettiva, senza far sbiadire la nozione forte di Resistenza e la consapevolezza politica che essa comportava, aiuta a qualificare le esperienze illegali e clandestine, caritatevoli ed umanitarie, logistiche e di supporto che confluirono, come tanti rivoli, dentro il torrente della lotta ai nazisti e ai fascisti fedeli alla Repubblica sociale. È in questa prospettiva – come accennavo – che la festa della Liberazione è tutt’altro che una nostalgica commemorazione. Essa invece obbliga ad una precisa e decisa presa d’atto di cosa fu allora e – necessariamente – di cosa è oggi la coscienza della nazione.

Nella primavera del 1945 l’esame di coscienza dell’Italia liberata chiamava in causa ognuno, dopo che per oltre vent’anni la disciplina era divenuta cieco confor­mismo, l’ordine scettica inerzia, la gerarchia servile obbedienza, la fortezza violenza e prepotenza, la fede rinuncia alla intelligenza, la fermezza intolleranza, la pa­zienza quietismo, la ragionevolezza opportunismo e cinismo. Come scampati ad un naufragio, se gli italiani guardavano a loro stessi vedevano colare a picco i relitti di un’illusione: quella dell’italiano nuovo, il grossolano tentativo del regime che, dopo anni di declamatoria artificiosità, rivelava ora tutta la sua povertà, quando non raggiungeva, verso i più giovani e indifesi, i limiti di un insensato sacrilegio. La lezione era amara, ma antica: è sempre l’uomo a far la storia e non la sto­ria a determinare l’uomo. E tuttavia, ripensando alla storia italiana prossima a voltare pagina, Sergio Paronetto, uno dei più brillanti intellettuali cattolici di quell’ora, che a soli 34 anni sarebbe morto appena un mese prima della Liberazione, si domandava:

Quante volte, come italiani, abbiamo peccato di omissione, di debolez­za, di stolta paura? Quante volte abbiamo ripetuto, fino a farcene uno schema mentale, l’arido gesto di Pilato? Quante volte abbiamo rinunziato al dovere di giudicare, rifiutando gli attributi umani del raziocinio e dello spirito critico? Quante volte abbiamo evitato la ricerca della verità, per paura di trovarla scomoda, contraria ai nostri interessi, alle nostre abitudini, a quelle che credevamo, con superficiale presunzione, le nostre idee? Pochi italiani possono guar­dare senza rossore e senza rimorso al loro passato di cit­tadini, alla loro personale partecipazione alla vita civica del corpo sociale. Dimenticare oggi questa semplice, forse ingrata, verità, significherebbe ancora una volta avviarsi da ciechi e dor­mienti per il nuovo, difficile, aspro, forse angoscioso cam­mino che quest’ora tragica, appena fugacemente illuminata da un albeggiare di libertà, sembra aprire all’Italia [Studium [MA: S. Paronetto], Morale “professionale” del cittadino, in «Studium», n. 8-9, agosto-settembre 1943, a. XXXIX, pp. 221-225].

Non erano domande “comode” ed oggi abbiamo il dovere di sottolineare come la lotta partigiana fu la prima, sorgiva risposta a questi laceranti interrogativi della coscienza. Venute meno le istituzioni con l’armistizio, crollati i pilastri sui quali si reggeva l’identificazione degli italiani con la nazione, la dissoluzione dello stato come rappresentante e tutore degli interessi generali fu senz’altro un drammatico «trauma storico». Ma da quella ferita germogliò un nuovo e radicalmente diverso significato della cittadinanza e della nazione. È per questo che oggi ci inchiniamo alla memoria di quanti, in mille modi diversi, abbandonati rossori e rimorsi, lo hanno reso possibile. Perché allo spazio geografico bagnato dal sangue dei vincitori e dei vinti corrispondeva uno spazio finalmente libero dal cancro del discorso “totalitario” sulla cittadinanza, dal tentativo di mobilitazione delle masse, di moltiplicazione di quei vincoli etico-politici di gerarchia e di comando che aveva reso visibile l’illusoria spoliazione degli individui, delle loro identità e della loro capacità di giudizio, la loro subordinazione ai voleri dello stato con la coercizione, la demagogia, la pedagogia totalitaria, la discriminazione dell’estraneo. In questo si radicava la decadenza della coscienza collettiva degli italiani e per questo motivo il recupero di un autentico significato della cittadinanza era l’unica via percorribile dal 25 aprile in avanti: soltanto riappropriandosi della coscienza e del suo senso civile, rieducandosi al valore del giudizio libero, rinunciando ad ogni riserva mentale sul recente passato, gli italiani potevano ripensare la loro personale partecipazione alla vita civica del corpo sociale in cui si sostanziava il loro essere nazione, la loro fratellanza «di sangue, di lingua, di religione». E gli italiani sapevano che la cittadinanza stessa, dopo un ventennio di mortificazioni e mutilazioni della coscienza civica, con intere generazioni civilmente analfabete, e dopo il battesimo di fuoco nel magma della Resistenza era un’arte difficile ed esigente da apprendere, un mestiere da esercitare, con una sua specifica morale da rispettare.

Dopo settant’anni, noi lo sappiamo? Ecco perché l’anniversario odierno è, per me, scomodo: perché impone una severa riflessione su come sia maturata negli ultimi decenni la formazione della nostra coscienza civile, su come si sia sviluppata l’educazione al senso della libertà politica e dei suoi limiti, dei suoi moduli concreti, dei necessari rapporti fra la libertà dell’uno e la li­bertà dei molti, fra la libertà giuridica e la libertà di fatto. In definitiva se le generazioni passate e quella nostra abbiano saputo tener fede alla promessa di democrazia, che non è mai una conquista definitiva, di quella primavera. Occorre cioè riconoscere, senza polemiche ma con una visione costruttiva, che un’educazione appropriata ai doveri di cittadinanza è stata in Italia limitata proprio dallo scontro radicale tra le maggiori forze politiche. L’approvazione quasi unanime della Costituzione, la capacità di ritrovare l’unità di fronte ai pericoli per la tenuta del sistema democratico, hanno certamente dimostrato l’esistenza di una comune lealtà di fondo al di là delle profonde divisioni. E tuttavia, in quest’opera di educazione collettiva ognuno dei contendenti ha sempre cercato di far apparire i propri interessi di parte come coincidenti e pienamente sovrapponibili a quelli della nazione [A. Ventrone, La cittadinanza repubblicana. Come cattolici e comunisti hanno costruito la democrazia italiana (1943-1948), Il Mulino, Bologna 2008]. Come ha scritto Pietro Scoppola «la democrazia italiana forse non poteva che rinascere così: sul binario della militanza di partito e delle distinte identità che essi offrivano. Ma è giusto riconoscere i costi di quella necessità storica. Quella mobilitazione spontanea non partitica che caratterizzò i venti mesi fra l’8 settembre del 1943 e il 25 aprile del 1945, quel tessuto di solidarietà spontanea formatosi negli anni della guerra non riuscì poi ad esprimersi nella consapevolezza compiuta di una cittadinanza comune, superiore alle singole appartenenze di parte» [P. Scoppola, L’educazione alla cittadinanza dal fascismo alla democrazia, in L. Pazzaglia (a cura di), Chiesa, cultura e educazione in Italia tra le due guerre, Morcelliana, Brescia 1988, pp. 565-585, p. 574]. Il 25 aprile è dunque una festa scomoda perché, accanto alla doverosa riconoscenza per il sacrificio di chi ha combattuto ed è morto perché la libertà e la cittadinanza democratica tornassero ad essere la linfa della nazione, continua ad indicare soprattutto l’urgenza di riflettere ed impegnarsi a costruire insieme una solida, pulita e condivisa coscienza collettiva del nostro essere italiani, cittadini liberi.

La testimonianza di Domenico Emanuelli, come accennavo all’inizio è per noi tarquiniesi eloquente. La sua vicenda biografica è nota: come cittadino e come professionista egli mise a frutto il proprio talento senza mai fare della politica una professione o uno strumento di divisione. Egli fu sempre consapevole che la militanza politica non doveva impedire alla cittadinanza di diventare un’acquisizione ed un patrimonio comune, com’era necessario dopo le ipocrisie ed i sacrilegi del Ventennio. Le appartenenze politiche, pure appassionanti, dovevano suscitare e non soffocare la diffusione di un’etica collettiva regolata dall’identificazione con le ragioni di tutte le componenti della comunità. Dopo il fascismo bisognava cioè riattivare in maniera nuova e democratica gli strumenti e i canali di mobilitazione sociale e politica della gente: Emanuelli lo fece non a parole ma col suo esempio amministrando con eguale competenza la cosa pubblica ed esercitando il suo mestiere di medico, in entrambi sapendo che il sopravvivere, da esseri umani e da meri individui della collettività, è diverso dal vivere come persone e come protagonisti, tutti indistintamente, della vita della propria Città.

Auguri, perciò, di un 25 aprile scomodo: che la gratitudine per il sacrificio di chi ha fatto di noi un popolo libero sia tutt’uno con la responsabilità verso un’Italia “severa e generosa”. Così la invocò nella sua Preghiera di un ribelle Teresio Olivelli, partigiano delle Fiamme Verdi massacrato di percosse nel lager di Flossenburg per un gesto di solidarietà verso un compagno di sventura. Un’Italia “severa e generosa”: così tocchi a noi di vederla ma specialmente di costruirla.

Tiziano Torresi