La notte bianca del Classico e quella colorata dei suoi studenti

di Tiziano Torresi

Mentre cresce l’attesa di conoscere le materie della seconda prova dell’esame di stato, sui social network dei teenager circolano immagini caricaturali della maturità, pubblicate da un irriverente account Facebook. La maturità scientifica è incarnata da una giovane e zelante cassiera, quella degli istituti agrari da un baldanzoso contadino in sella al suo trattore, quella dell’alberghiero dalla grafica di un videogioco di cucina. Per il classico, invece, niente Indiana Jones o improvvisati archeologi e umanisti: in un’aula deserta campeggia la scritta “Chi ci va al classico?”. È domanda – nell’originale, invero, un po’ più volgare – che può avere diversi significati. Nondimeno inquieta. Specialmente se, una volta sottratta alla caotica agorà virtuale di Facebook, la si accosta alle cifre, altrettanto immediate, sul calo degli iscritti ai licei classici in Italia. In otto anni gli alunni delle prime classi sono più che dimezzati, passando dai 65.000 del 2007 ai 31.000 del 2015.

In molti hanno provato a elaborare diagnosi e a proporre rimedi per la crisi che coinvolge il più storico tra gli indirizzi di studi del sistema scolastico italiano. Tra dibattiti e polemiche la risposta probabilmente più efficace e lungimirante l’ha data un’iniziativa ideata dal prof. Rocco Schembra, docente di latino e di greco al liceo classico “Gulli e Pennisi” di Acireale. È la Notte bianca dei Licei classici. Da tre anni, una sera di gennaio, in contemporanea in decine e decine di licei della penisola, si svolge una serata che intende promuovere e valorizzare lo studio della cultura classica nelle scuole superiori. L’iniziativa è promossa dal Ministero dell’Istruzione, nell’ambito delle opere organizzate dalla Direzione Generale per gli Ordinamenti Scolastici e la Valutazione del Sistema Nazionale di Istruzione.

Un progetto al quale il Liceo Classico “Vincenzo Cardarelli” di Tarquinia, insieme ad altri 387 istituti italiani, ha aderito anche quest’anno con determinazione e con un lusinghiero successo. Venerdì 13 gennaio le porte dell’Istituto sono rimaste aperte sino a notte inoltrata a studenti, docenti, familiari, cittadini. Li ha accolti, numerosissimi, il dirigente scolastico, Laura Piroli, che nel suo saluto ha confidato come nelle aule del Classico, in un plesso che, per dimensioni e popolazione discente, ha il ritmo frenetico di una vera e propria cittadella studentesca, si respiri ogni giorno una calma operosa e feconda. Nel corso della serata gli studenti lo hanno dimostrato e hanno messo in mostra i loro talenti migliori: dalla recitazione delle poesie in dialetto di Belli, di Trilussa e del conterraneo Titta Marini alla rappresentazione teatrale del mito di Narciso, dalla lettura dei brani di Platone, Sofocle e Simonide a coreografie e intermezzi musicali in lingua greca e latina. C’è stato spazio anche per alcune conferenze degli ex alunni, per la storia di Elzéard Bouffier di Jean Giono raccontata in immagini dai Carabinieri Forestali di Tarquinia e persino per il simposio, che è stato rievocato nelle sue forme e nei suoi significati per la civiltà classica con la viva voce degli studenti e idealmente rivissuto attraverso la degustazione di vini locali.

Una Notte bianca che ha messo in luce tutta la vivacità e le potenzialità del Liceo classico, che ne ha coinvolto a più livelli le intelligenze, che ha intrattenuto e insieme invitato alla riflessione su un patrimonio da valorizzare e da difendere, anche a Tarquinia. Perché avere a pochi passi da casa la scuola che si vuole frequentare è un vantaggio che le generazioni precedenti all’attuale non hanno avuto e perché Tarquinia è un paese il cui nome, la cui storia e il cui futuro hanno nella cultura classica la loro stessa ragion d’essere.

Forse più che dalle cattedre di filologia e glottologia, la risposta più convincente alla barzelletta delle “lingue morte” viene proprio dai giovani che insieme ai loro docenti ne hanno dimostrato la vitalità e spiegato con immagini e gesti semplici e immediati – ma prima ancora con il loro impegno – come quella lingua continui ad abitare e ispirare la cultura che l’uomo contemporaneo sperimenta, prosegue, arricchisce. Mescolati al pubblico dei familiari e degli insegnanti hanno preso posto anche molti ex alunni, ciascuno col proprio percorso esistenziale, professionale, in molti casi accademico. Itinerari differenti uniti dalla consapevolezza che l’arricchimento ricevuto sui banchi della scuola superiore va ben oltre gli insegnamenti sulle discipline umanistiche che è stato possibile ricavarne o il diploma che i più diligenti sono riusciti a ottenere, che lo sbocco sperato o ricercato di quegli studi è stato importante ma non quanto l’educazione al pensiero e al suo esercizio critico grazie ad essi ricevuta. Non è retorica campanilista, non è artificiosa contrapposizione alle discipline scientifiche, che pure hanno trovato negli ultimi anni uno spazio di tutto riguardo anche nei curricula dei licei classici. Piuttosto è l’urgenza di ridare vigore a un’istituzione fondamentale per la cultura dell’Italia, che ha perso smalto non per suo demerito ma per l’insipienza di chi l’ha governata e di chi ha assecondato la logica pretenziosa delle tre i, di internet, inglese e impresa. Si tratta di esigenze legittime e di competenze fondamentali per uno studente che si prepari a vivere nel travaglio del mondo contemporaneo. Ma non si capisce perché, nella vulgata corrente, esse siano state esaltate come le forme nuove della modernità da opporre alla compassata tradizione del Classico. Le preoccupazioni dei genitori rispetto al futuro del proprio figlio, in un tempo segnato da forme diffuse di precarietà sociale, difficoltà economiche, inquietudine per il domani sono legittime. Illuderli con gli slogan e le promesse di sbocchi lavorativi immediati e corsi di studio che siano “assicurazioni sulla vita” non è serio. È serio invece ragionare, senza retorica, sulla qualità e sui differenti obiettivi delle scuole tecniche, dei diversi indirizzi dei licei, della persistente solidità della proposta formativa del Classico, senza fare delle prime una panacea per l’istruzione delle nuove generazioni e senza continuare a dipingere l’ultimo come una torre d’avorio rivolta al passato.

La canzone che ha aperto la Notte bianca ha un ritornello: “Siamo nani sulle spalle dei giganti”. Lo sanno i giovani di Tarquinia che con competenza, qualche comprensibile timore a esibirsi per la prima volta in pubblico ma pure con un tocco di frivolezza, tra coreografie e momenti lirici, non recitano soltanto una parte – e con quale cura! – ma incarnano un messaggio: indugiare nello studio umanistico non è un trastullo debole ma una passione che aiuta a crescere come persone migliori e che nei più bravi si riveste dei colori del civismo. Può sembrare improduttivo secondo le logiche fasulle del mondo di oggi, che tutto vorrebbe ridurre a risultati concreti, tangibili e immediati. Non secondo quelle che da sempre hanno fissato nella fatica dura ma appagante dello studium il modo privilegiato per imparare a ragionare con la propria testa, con una mente critica e aperta, cioè ad essere liberi e, al tempo stesso, responsabili, chiamati a rispondere della propria intelligenza, a onorarla nella vita prima ancora che nella professione. Imparare a diventare pienamente quello che Sofocle, nel brano dell’Antigone recitato dai ragazzi delle quinte classi, canta come un perpetuo prodigio: l’uomo, capace di apprendere “la parola e l’aereo pensiero e gli impulsi civili”. Forse è una lezione che rispetto alla cultura di oggi va contro corrente, che risulta persino ribelle in un indirizzo come il Classico che troppi e troppo a lungo hanno colpevolmente etichettato come una scuola di conformismo. Ribelle, ma nel senso buono. Controcorrente, ma nel verso giusto.