La prima volta che vidi Parigi: un racconto di Anna Alfieri

di Anna Alfieri

La prima volta che vidi Parigi avevo forse venti anni e facevo parte del gruppo vacanze di un antico istituto di credito che allora aveva ancora il nome misterioso e inquietante di Banco di Santo Spirito, ai cui ludi aziendali partecipavo in pieno diritto perché mio padre ne era un direttore di filiale in provincia. Così come lo era anche suo fratello, mio zio Manlio Alfieri, pittore tarquiniese, che venne a Parigi con noi in cerca di ispirazioni speciali.

Il contingente cornetano del gruppo era composto da quattro persone: mio zio, che appena scese dal treno si sperse nei meandri di un grande museo mettendo tutti in allarme, mia zia Elviretta de Angelis, sua moglie, che rimase immediatamente folgorata dello sfavillio dei gioielli esposti in Rue de Rivoli e tale rimase per sempre, e dal figlio degli stimati proprietari di una grande mescita di vini in via Umberto I a Tarquinia, contigua al forno di Ricci. Un vispo impiegato di fresca assunzione, ma già pronto ad affrontare ogni tipo di parigina avventura.

Poi c’ero io che, grassottella ed entusiasta ma troppo giovane per pensare a Proust, saltellavo felice in Place de la Concorde sulle note della sinfonia di Gershwin nel film “Un americano a Parigi”. O che, in una alternativa di equivalente valore, seguivo le orme del Commissario Maigret fiutando profumi di soupe a l’oignon o di coq au vin rouge in Quai des Orfèvres o in qualche bistrot di Boulevard Richard Lenoir.

Gli altri vacanzieri dello Spirito Santo erano tutti maschietti: giovanotti di belle speranze e di belle cravatte che cominciarono a parlare di donne e champagne sui marciapiedi della Stazione Termini a Roma, contemplando il wagon-lit che ci avrebbe portato in Francia, e smisero di farlo solo nel giorno del loro – e ahimè anche nostro – mesto ritorno in famiglia.

Il capo indiscusso della spedizione, il signore e padrone assoluto del nostro tempo, dei nostri svaghi e perfino dei nostri pensieri nascosti era il Dottor La Mandorla, alto funzionario della sede centrale del Banco, che ebbe un incredibile colpo di genio nell’alloggiarci in un albergo nel cuore malandrino di Pigalle, a quel tempo considerato il quartiere più tentatore di Parigi: un aggregato di locali notturni che esponevano locandine piccanti, animato in ogni ora del giorno e della notte da borseggiatori implacabili, adescatrici seriali di turisti vogliosi o imbambolati, compresi i miei amici dello Spirito Santo, e da spacciatori di materiale pornografico vario o di innocenti souvenir solo un po’ maliziosi. Fu infatti a Pigalle che io acquistai una biro nel cui cannello trasparente si intravedeva l’immagine di una donnina minuscola come l’unghia di un mignolo che si vestiva o spogliava a ogni minimo movimento del polso.

Fortunatamente – o sfortunatamente, secondo i punti di vista – il Dottor La Mandorla non ci permetteva nessun tipo di distrazione perché ci sfiancava di fatica già al sorgere del sole, inquadrandoci come soldatini per poi, a marce forzare, trascinarci, cronometro alla mano, in tutti i luoghi che, a suo modo di vedere, un turista dabbene doveva necessariamente visitare. Dalla Torre Eiffel a Notre Dame, dalla patisserie stellata, dove in pochi minuti ingoiammo manciate di dolcetti squisiti che avrebbero meritato ore di serena meditazione, fino al cimitero di Père-Lachaise dove scoprimmo che Cyrano de Bergerac era davvero esistito, giacchè si trovava proprio lì, morto e sepolto dal 1655.

In una delle nostre visite al Louvre fui io a interrompere la nostra marcia trionfale perché, dopo essere passata indenne davanti al quadro della Gioconda che mi era sembrato piccolo e a alle Nozze di Cana del Veronese che invece misurava quasi settanta metri quadri, dopo aver contemplato e assorbito centinaia di opere d’arte di ogni forma e colore, mi misi a piangere e quasi svenni davanti a una Crocifissione del Mantegna perché non capivo più se fosse contenuta in uno spazio piccolo come una cartolina postale o grande come una intera parete. Oppure, se non avesse sconfinato e fosse sospesa in un vuoto irreale che avrebbe potuto inghiottire anche me. La sindrome di Stendhal.

Una sera, l’ultima del nostro soggiorno in città, La Mandorla ci consigliò di vestirci in modo elegante perché ci avrebbe introdotto nei locali più esclusivi della Parigi notturna. In realtà cominciammo proprio da Pigalle e dal Moulin Rouge, dove le ballerine di Can-can emanavano gridolini di gioia a ogni capriola e subito dopo, consapevoli di partecipare a un evento epocale, andammo a vedere le mitiche Bluebell che, al culmine del loro successo internazionale, scendevano a grappoli dal soffitto del Lido e planavano sugli spettatori provenienti da ogni parte del mondo, riempiendo l’aria di frammenti di piume profumate e di pulviscolo d’oro e d’argento.

Una visitina alle Folies Bergère, e dopo aver adempiuto ai nostri riti pop del turismo di massa, ci addentrammo finalmente nel mondo insidioso dei night più nascosti, veri e propri scrigni di erotismo, di seta e di velluto, dove si praticava lo spogliarello, quello duro, diretto ed estremo e quello burlesque, fantasioso e leggero.

In un luogo azzurrognolo una ragazza dai capelli rossi come il fuoco e la pelle nuda color avorio non si spogliò. Anzi, ricominciando dal basso con gesti sinuosi e allusivi si rivestì fino ad apparire completamente fasciata da un abito color verde serpente. In un altro locale, il più sofisticato e raffinato di tutti, a spogliarsi era un giovane uomo esile ed emaciato che, tolto frac e cilindro, ci apparve come la donna più bella del mondo, senza svelare fino in fondo se fosse davvero una donna o solo un ragazzo dai baffetti dorati.

Era quasi l’alba quando il Dottor La Mandorla ci avvisò che stavamo per entrare nel posto più malfamato di Parigi e dintorni: una tavernaccia per turisti di bocca buona frequentata da improbabili gigolò che ballavano la Giava come Jean Gabin e, senza nemmeno togliersi la sigaretta eternamente incollata alla bocca, ogni tanto schiaffeggiavano qualche ragazza avvizzita che portava il basco. Eppure quello, proprio quello, era davvero l’angolo più malfamato di Parigi, di Francia e di tutto il mondo. Perché mentre i falsi Jean Gabin maltrattavano le false Edith Piaf sotto i nostri occhi annoiati e sprezzanti, un autentico ladro, più impalpabile e lieve di Arsenio Lupin, elegantemente ci ripuliva dei nostri orologi, delle nostre catenine, dei nostri soldi e dei sacri portafogli che custodivano documenti e fotografie delle nostre persone più care. Lasciandoci sedotti e abbandonati, umiliati e offesi, compreso La Mandorla dello Spirito Santo. La prima volta che vidi Parigi, mezzo secolo fa e anche di più.