Riceviamo da Giulio Ielardi e pubblichiamo
Caro direttore,
sono un fotografo e giornalista romano e da due anni e mezzo mi sono trasferito a Tarquinia, dove ho aperto uno studio. Le scrivo perché avendo scelto di vivere qui sono naturalmente interessato alle vicende culturali della comunità tarquiniese e perché sono finalmente riuscito a leggere l’interessantissimo volume “Musa incostante. L’esperienza culturale di Tarquinia negli ultimi decenni” a firma Maurizio Brunori che ne ricostruisce il più recente passato.
Visto che L’Extranews mi sembra il più efficace luogo d’informazione e dibattito locale, su questa lettura e approfittando della sua ospitalità vorrei condividere alcune osservazioni, certo condizionate anche dalle aspettative che hanno accompagnato la mia scelta di lasciare Roma per Tarquinia.
Leggendo la ricostruzione di Brunori, intanto sono rimasto piacevolmente colpito dalla ricchezza di iniziative realizzate nel passato che denota un lodevole attaccamento alla storia locale. Cito tra gli altri il significativo episodio del 1985 coi tarquiniesi che minacciano di sdraiarsi all’ingresso del Museo archeologico per opporsi al prestito della famosa statua dei Cavalli alati richiesta per una mostra sugli etruschi a Milano!
Pure mi ha sorpreso leggere della quantità di associazioni culturali presenti: forse persino troppe – posso dirlo? – finendo per diluire e forse dissipare la forza di una spinta essenziale della società civile. Ma se tutte insieme si unissero a partecipare a degli Stati generali della Cultura, convocati dall’amministrazione comunale o dalla stessa Società tarquiniense di arte e storia? Potrebbe forse venirne uno slancio unitario capace di mettere da parte gli individualismi per la causa comune.
Non ho invece trovato cenno a protagonisti della vita culturale di Tarquinia, almeno io li pensavo tali, come invece mi sarei aspettato. Per esempio Pietro Romanelli, che ha finito di portare alla luce uno dei luoghi che già amo di più come l’Ara della Regina. O i suoi colleghi Mario Torelli e Massimo Pallottino. Né pubblicazioni, né una strada dedicata, né una qualche ricostruzione che abbia saputo rievocare scoperte archeologiche di cui oggi il prestigio della città si nutre.
Anche su Sebastian Matta, sicuramente la sorpresa più grande che mi ha riservato Tarquinia, nonostante il capitolo apposito nel libro non mi pare che almeno oggi riceva un’attenzione proporzionata al calibro dell’artista. Possibile che un luogo di straordinario interesse quale la Bandita, che ho visitato in occasione di una benemerita giornata FAI, non sia al centro di un’attenzione costante e convinta da parte degli amministratori per farne un vanto della città? Siamo proprio sicuri che ogni tentativo è stato fatto con gli eredi per offrire il sostegno affidabile e duraturo di una pubblica amministrazione? E, ancora, possibile – per nominare anche le cose piccole – che il magico “Occhio del mondo” disegnato da Matta nella pavimentazione della piazza del Comune debba quotidianamente fare i conti con gli arredi esterni di un ristorante e le installazioni di eventi di ogni tipo che ne mettono a rischio l’integrità?
Ma la lacuna più vistosa che ho riscontrato nell’azione pubblica a livello locale a me è sembrata ancora un’altra e cioè l’assenza quasi totale – almeno in questi ultimi tempi, sarei felice di venire smentito – di iniziative e prese di coscienza sui valori ambientali che il territorio di Tarquinia esprime. Ma anche il suo stesso centro storico! – su cui arrivo tra un attimo. Tornando per un momento al rendiconto di Brunori, come ho fatto rilevare anche all’ottimo Autore, qui la scelta è probabilmente stata di restringere il campo alle sole iniziative culturali. Eppure è difficile separare i beni archeologici dei siti Unesco tanto di Tarquinia che di Cerveteri, per fare solo l’esempio più eclatante, dai paesaggi che li hanno visti nascere e che tuttora li ospitano e li rendono unici. Insomma che senso ha ostentare i resoconti incantati di D.H. Lawrence voltando le spalle alle bellissime valli del Marta e del Mignone, decantare certa modernità degli usi e costumi della gente etrusca e ignorare quel piccolo strepitoso parco di poco oltre i confini comunali che è Marturanum, lodare i versi di Vincenzo Cardarelli e insomma escludere l’ambiente naturale dal racconto e dalla valorizzazione dell’identità locale?
Nel territorio di Tarquinia insistono ben due aree protette, il monumento naturale La Frasca e la riserva statale delle Saline: sono ben pochi i Comuni del Lazio a godere di una simile fortuna. La pineta di San Giorgio ospita la garzaia più importante del Lazio, con circa 500 nidi di aironi, nonché un ulteriore tratto di costa ancora inedificato e ricco di valori paesaggistici. E che dire di torri e tetti del centro storico della città, dove ogni primavera s’insedia l’unica importante colonia al di fuori del Mezzogiorno del raro falco grillaio? In Spagna (a Trujillo, Estremadura) intorno a questo piccolo rapace ruota un festival del birdwatching che richiama migliaia di visitatori, a Tarquinia quando mi vedono fotografarli devo spiegare che non si tratta di piccioni.
Sulle saline ci sarebbe tanto da dire. Certo che si tratta di area demaniale, certo che la riserva ha conosciuto i problemi del cambio di ministero di riferimento (e purtroppo anche un lutto recente nella sua dirigenza). Ma una risorsa di tale portata per il territorio, anche qui, meriterebbe un’attenzione continua e convinta da parte di chi deve amministrare per conto di tutti a cominciare dai residenti. Mentre il tempo lavora per sottrarre valore a un patrimonio anche edilizio unico, vocato ad ospitare un polo di attrazione per il turismo ambientale e la ricerca scientifica con pochi paragoni in Italia.
Non voglio dilungarmi oltre e già ringrazio chi è arrivato sin qui. È che di questi luoghi ci si innamora alla svelta e vogliamo tutti impegnarci affinché siano sempre più patrimonio condiviso. A me non pare che una visione che guarda a un presunto sviluppo turistico basato su nuovo cemento e consumo di suolo, com’è un porto turistico a soli 20 km da uno già esistente e alla foce di un corso d’acqua inquinato e dalla portata modesta, possa portare a qualcosa di buono. Semplicemente, è una visione vecchia e che guarda indietro.
Più che di grandi opere mi aspetterei di sentir parlare di un futuro di Tarquinia che sta nella sua storia e nel paesaggio che ne ha ospitato le vicende, che andrebbero riscoperte con uno sguardo contemporaneo volto alla nuova domanda di qualità della vita, di identità locale autentica, di spazi urbani a misura d’uomo e quindi pedonali, di luogo che ancora offre valori culturali, ambientali e umani altrove più difficili a trovarsi. Per questo molti, come ho fatto io, hanno lasciato la vita troppo faticosa e alienante della metropoli e saranno sempre di più pensando anche al dopo-Covid e alla diffusione dello smart working.
Lavoriamo sulla fruibilità della campagna e dei percorsi con progetti che non richiedono risorse faraoniche: per esempio estendere un marciapiede fino al cimitero, curare la manutenzione della magnifica via dei Principi, realizzare una pista ciclabile dal lago di Bolsena fino al mare lungo il Marta che sarebbe di fortissimo richiamo turistico, avviare una ben fatta campagna di comunicazione sulla migliore proposta escursionistica esistente e cioè il Cammino della Tuscia (il 103). E chissà cos’altro aggiungerebbe chi conosce Tarquinia molto meglio di me. Ma senza perdere mai di vista quel che abbiamo sotto gli occhi al punto da rischiare di non vederlo – e un romano conosce molto bene il rischio – e cioè il grande patrimonio di natura e cultura di cui siamo temporanei custodi. Si tratta in fondo di volergli più bene.
