Brevi appenidici olimpioniche tarquiniesi: “Certo che ho perso, ma che giornata!”

Pubblichiamo volentieri il ricordo di uno sportivo tarquiniese, che sulla scia dei successi degli schermidori italiani a Londra ha rispolverato per noi un momento del suo passato da fiorettista.

(a.d.) È strano che non ricordi la data precisa di quella gara, ricordo solo che si svolse in aprile. Eppure è stata la prima e unica volta che sono arrivato ad essere ammesso al campionato italiano assoluto di scherma nella disciplina del fioretto. La massima gara di livello nazionale a cui ogni schermidore sogna di partecipare e solo in base ai risultati raggiunti si è ammessi. Lì puoi incontrare e conoscere i migliori del mondo. Sì, del mondo, perché essere un campione di scherma in Italia equivale ad essere un campione di livello mondiale come tutti hanno potuto vedere nei giorni scorsi alle Olimpiadi di Londra.

Ma i campioni di oggi non sono una novità. Loro hanno imparato dai campioni degli anni precedenti che avevano ereditato la loro classe da chi li aveva preceduti. In questo sport infatti siamo fra i più forti al mondo da sempre.

Io avevo sei anni quando ho cominciato a praticare la scherma. Quando ne avevo dieci ho visto trionfare Mauro Numa nel fioretto individuale alle Olimpiadi di Los Angeles del 1984 e bissare l’oro olimpico nella gara a squadre assieme ad Andrea Borella, Andrea Cipressa, Angelo Scuri e Stefano Cerioni. Quest’ultimo lo si ricorda più facilmente perché è l’attuale CT della nazionale di fioretto sia maschile che femminile e lo abbiamo visto spesso inquadrato dalle telecamere durante le strepitose vittorie di questi giorni proprio ad opera dei fiorettisti. Forse non tutti sanno che nelle stesse Olimpiadi del 1984 vinse il bronzo, mentre alle Olimpiadi di Seul si aggiudicò addirittura la medaglia d’oro. Quattro anni dopo, alla vigilia delle Olimpiadi di Barcellona, era ancora uno dei più forti al mondo (e lo sarebbe stato fino alla fine degli anni novanta) ed io avevo appena diciotto anni.

A quella età ormai sapevo di non avere la stoffa del campione; quella dote innata che differenzia un buono sportivo da un fuoriclasse. Avevo però tanta passione. Mi allenavo quasi tutti i giorni. Sempre il primo ad arrivare in palestra e l’ultimo ad andare via. Ma vedevo alcuni della mia classe di età che già si affermavano nella nazionale giovanile mentre io rimanevo uno dei tanti buoni schermidori, ricordato sporadicamente per qualche buon piazzamento in alcune gare e per aver occasionalmente battuto i ben più accreditati coetanei.

Quell’anno però mi ero preparato meglio del solito. Volevo riuscire a passare di categoria e avevo cominciato fin dalla fine dell’estate a prepararmi per la stagione che sarebbe seguita.

Le prime gare subito in novembre, a Rimini, dove un buon risultato ti permetteva di passare di categoria. E il buon risultato venne. Poi i mesi successivi, tanta preparazione e altre gare fino ad arrivare ad essere ammesso al suddetto campionato italiano assoluto.

Sapevo di non avere chance, ma quando non hai nulla da perdere puoi tirare in pedana con più serenità. Infatti arrivò subito una vittoria al primo assalto. Era uno schermidore che aveva acquisito una categoria superiore alla mia, perciò vi lascio immaginare la soddisfazione. Poi arrivò la sconfitta al secondo assalto seguita da un’altra ancora. Mi rimanevano solo due assalti. Il penultimo era con uno di quei coetanei che si muoveva attorno alla nazionale under 20 e che conoscevo molto bene. Non lo avevo mai battuto durante gli anni precedenti. Lui, del resto, aveva vinto due titoli nazionali quando eravamo dei ragazzini. Quel giorno, su quella pedana, arrivai fino al quattro a quattro, e lì tornò di nuovo la paura. La paura di perdere l’incontro che con lui non avevo mai vinto. Ecco che le gambe si bloccano. Il fioretto che trema fra le dita. E la stoccata vincente che esce per un soffio e che fa scemare un piccolo sogno. Sceso di pedana avvilito arriva l’immancabile ramanzina del maestro che, tanto per cambiare, mi ricorda come abbia perso l’incontro per paura. Quella paura di perdere che mi ha sempre attanagliato e che, come mi diceva lui da anni ad ogni gara, mi faceva gareggiare al 50% delle mie capacità.

“Adesso – mi disse – incontrerai il campione olimpico in carica. Il può forte schermidore del mondo. Hai paura?” “Certo!” fu la mia risposta scontata. “Allora sappi che hai già perso in partenza. Lui è un campione e tu no! Cosa hai da perdere se hai già perso prima di salire in pedana”. Dopo altre allusioni deleterie e demoralizzanti il mio maestro concluse dicendomi che non dovevo avere paura di perdere visto che la sconfitta era pressoché scontata. Quindi potevo salire in pedana tranquillo e dare il meglio di me. Nessuno avrebbe fatto caso alla sconfitta di un ragazzo sconosciuto contro il più forte del mondo.

Ebbene salii in pedana con un sorriso che non avevo mai avuto. Di fronte a me c’era una medaglia d’oro olimpica, il campione in carica, ed io mi ero guadagnato il diritto di stare in pedana di fronte a lui. Intorno c’erano molte persone ad assistere come sempre succede quando un atleta famoso è in pedana. Tra loro anche molti suoi amici e compagni d’arme che scherzavano nel vederlo affrontare un ragazzo minuto e gracile come ero io.

La fortuna fu proprio quella. Io non ero una preoccupazione. Quando l’arbitro diede il via all’assalto (il cosiddetto “avvoi”) non sapevo cosa fare. Cosa potevo sperare di fare contro di lui? Quale azione? Che tattica? Poi mi ripresi pensando alle parole del mio maestro. Ecco che Stefano avanza. Io un passo indietro. Lui un altro in avanti ed io sempre più indietro. Sempre più vicino al fondo della pedana. E allora perché no? Perché non attaccare? Tanto cosa avevo da perdere? Un colpo alla sua lama per minacciarlo. Un altro colpo e uno suo contro il mio fioretto. Fra poco parte e mi travolge senza che possa fermarlo. Ed allora parto io, ma per finta. Si, un finto attacco con la punta del fioretto rivolta a sinistra senza minacciare il bersaglio, lui che vede il corpo scoperto e che si lancia sicuro e tranquillo verso la prima stoccata facile facile. Mi vedo ancora perfettamente l’immagine mia che con un piccolo scarto di lato paro il suo affondo con una violenta parata di prima a spingere via la sua lama. L’impeto mi fa spiccare un leggero salto e poi la stoccata vincente contro il campione. Ce l’avevo fatta! Avevo messo una stoccata al mio idolo. Al campione olimpico in carica! Ed era stata una stoccata bellissima. Di grande spettacolo per chi assisteva all’incontro. Ero in vantaggio e lo capii non dalla luce verde che si accese a mio favore, ma dalle grida di chi assisteva, dagli applausi e dalle canzonerie degli amici di Stefano Cerioni per essersi fatto sorprendere da un ragazzo sconosciuto. L’incontro finì presto. Le cinque stoccate che seguirono non le ricordo adesso come non le ricordavo allora. Forse perché praticamente non le ho neanche viste tanto bene. In compenso le ho sentite arrivare tutte e cinque e non ho potuto evitarle. Forse non dovevo farlo arrabbiare? Sarebbe forse stato diverso? No! Sarebbe stato lo stesso, ma io non mi sarei mai potuto vantare con gli amici di quella stoccata. Ogni volta che racconto l’episodio mi fermo a quella sola stoccata e quando mi chiedono se alla fine poi ho perso (come è ovvio aspettarsi) rispondo sempre: “Certo che ho perso! Ma che giornata!”

P.S. Quella gara la vinse un certo Alessandro Puccini che divenne campione italiano. Lo stesso che ad Atlanta nel 1996 avrebbe vinto l’oro olimpico nel fioretto individuale!