Il mare più nostro che c’è

di Anna Alfieri

Quello che ogni giorno ci ammalia e ci abbaglia è il mare più nostro che c’è perché prende il nome dall’eroe Tirreno, fratello di Tarchon-Tarconte che fondò la città di Tarquinia. Per questo motivo gli Etruschi, che tra loro si chiamavano Rasenna, vennero conosciuti dagli altri come Tirreni, navigatori esperti e pirati audacissimi. Così sfrontati e fantasiosi che osarono perfino rapire Dioniso per chiederne il riscatto agli dei suoi fratelli. Ma Dioniso fece crescere sulle vele e sugli alberi delle loro navi freschi tralci di vite carichi di grappoli stillanti vino così frizzante e robusto che – come narra un inno omerico – essi, i Tirreni predatori, ebbri e giocosi si gettarono in mare felici, tramutati in delfini.

Anticamente in un lembo della spiaggia di Tarquinia prosperava Gravisca, un emporio greco dove i mercanti provenienti da Mileto, da Efeso, da Corinto e da tanti altri luoghi lontani e misteriosi, condividevano con gli abitanti locali non solo le loro merci preziose ma anche i loro racconti, i pensieri e i saperi, la religione e la cultura. Infatti a Gravisca esisteva anche un tempio dedicato a Hera, Demetra e Apollo dove si praticava la prostituzione sacra. Lì i marinai, scampati alle tempeste e alle lusinghe delle sirene, deponevano come doni votivi vasi dipinti, ambre ed avori, ori e coralli. Poi accendevano cento e cento lucerne di terracotta, molte delle quali sono ancora conservate nel nostro Museo archeologico.

A Gravisca si venerava la memoria del bellissimo Adone (Atonis in etrusco). Nato da una fessura di un albero di mirra, fu amato da tutte le dee della terra del cielo e degli inferi ma amò solo Afrodite che dell’amore era la dea. Perciò quando morì, ucciso da un cinghiale, Afrodite pianse e lui per amore risorse, rivisse finché non venne tramutato in un anemone rosso. In ricordo della sua morte e della sua resurrezione che coincidevano con l’appassire e il rifiorire della natura, anche a Gravisca, come in Grecia, venivano celebrate le Adonie, vibranti cerimonie il cui pathos funebre ed erotico si spandeva fino alle campagne circostanti, accecate dal sole e stordite dal frinire delle cicale che esaltavano i sensi e fino al mare che diventava più azzurro e fremeva in modo sensuale e speciale.

Poi passarono secoli e secoli e della accogliente e voluttuosa Gravisca pagana non restò che un porto. Un porto ormai appartenente ad una città cristiana che prima non c’era, un grumo orgoglioso di chiese, torri e mura imprendibili chiamato Corneto. Nell’anno del Signore 1367 Corneto e il suo mare furono testimoni e protagonisti di un episodio che avrebbe cambiato la storia della Chiesa romana e quindi anche quella del mondo di allora: lo sbarco di un Papa che intendeva ripristinare la sede pontificia nella città di San Pietro dopo la cattività di Avignone.

L’evento fu felicissimo. In attesa del Pontefice, già alla fine di maggio, nel lido di Tarquinia era sorto come per incanto un villaggio fiabesco, formato da tende di lino bianco, padiglioni scarlatti, baldacchini ricamati e vivaci bivacchi notturni animati dal fior fiore del patriziato romano, dai gentiluomini e governatori degli Stati della Chiesa e da una moltitudine di persone venute da ogni dove. I Cornetani intanto avevano costruito un pontile proteso nel mare e coperto di drappi preziosi e tappeti orientali dove il Papa sarebbe sceso sicuro, asciutto e sereno. Finalmente “alli tre o alli quattro del mese di giugno – come scrissero i cronisti del tempo – Urbano V, scortato da numerosi legni inviatigli a gara da tutti i principi italiani, dopo una felice navigazione, gloriosamente sbarcò”. Attraversò il pontile, ascoltò un Te Deum al centro del villaggio fatato; “indi – come narrano ancora i cronisti – salito a cavallo con accompagnamento grandissimo di nobiltà entrò in Corneto, circa al mezzodì, avendo eletto per sua abitazione il Convento di San Francesco de’ Minori”.

Eppure, nel secolo successivo, furono proprio i Frati Minori e gli Agostiniani di San Marco a scatenare in città la più bizzarra e piccola guerra di religione mai vista in Corneto, e forse nel mondo. Tutto cominciò il 4 marzo 1489, quando all’orizzonte apparve la trireme del pirata Villamarina che – scortata dalle imbarcazioni di quattrocento cavalieri di Rodi in qualità di donatori – trasportava, come regalo a papa Innocenzo VIII, l’ostaggio più prezioso che si potesse immaginare: il principe turco Gem Sultan, detto Zizim, figlio di Maometto II il Conquistatore, cioè di colui che aveva estirpato il cristianesimo a Costantinopoli e fratello di Bayazid, padrone di tutto l’immenso impero ottomano.

Ostaggio fascinoso e strategico che il Papa aspettava con ansia nella folle convinzione di convertirlo al cristianesimo e di metterlo a capo di una sua grande crociata. Perciò, per compiacerlo, ordinò agli esterrefatti cornetani di predisporre per lui, in pochissimo tempo, cinquanta letti “completi di tutto”, pena la devastazione delle campagne, la razzia di tutto il bestiame da parte delle truppe papali e la multa di mille ducati da devolvere alla costruzione del forte di Civitavecchia. Corneto tremò e il Magnifico Nobile Consultore della Città, Guiduccio Vitelli, rovistò ogni dimora in cerca di giacigli degni di un principe. Non ne trovò. Allora bussò ai grandi conventi, che di letti ne avevano molti, ma i francescani e gli agostiniani decisi a farsi martirizzare pur di non cedere un solo giaciglio al maomettano più maomettano del mondo, fratello di maomettani infedelissimi, si armarono di sassi e bastoni e si arroccarono nei loro chiostri. Di rimando, Guiduccio suonò le campane a martello, armò i cornetani di fionde e di tronchi d’albero come arieti e li assediò. A vincere questa piccola e strampalata guerra di religione fu Guiduccio, ma anche Zizim, che al suo sbarco a Corneto trovò ben allineati i suoi cinquanta letti provvisti di tutto, perfino di scatole di confetti, perché nel frattempo si era sparsa la voce che il principe ottomano era goloso.

La storia ci dice che ovviamente nonostante i confetti Zizim non si convertì al cristianesimo. Anzi, pur restando ostaggio dei Papi, non smise mai di vestirsi alla turca, con il bel turbante bianco e le belle babbucce gialle degli ottomani, amato, ammirato e viziato da tutti i romani perché bello, gentile e perfino poeta.

E qui mi fermo, pur avendo tante altre cose da raccontare. Alla mia età anche lo scrivere diventa faticoso. Eppure, se in questo momento guardando il mare più nostro che c’è intravedessi l’isola di Montecristo ricomincerei a sognare grandi tesori e tremende vendette, invidiando la penna arruffata e avventurosa di Alexandre Dumas.