Requiem per una palma

di Anna Alfieri

Solo adesso, a tumulazione avvenuta da qualche mese, mi sono accorta che la Grande Palma, alta, nobile, solitaria e svettante nel chiostro di San Marco, è morta. Inaspettatamente uccisa – come in un racconto di Edgar A. Poe – dalla “Morte Rossa”, cioè dal Rhynchopherus Ferrugineus, detto il Punteruolo Rosso, contro il quale sembra non esserci stato rimedio. Perciò eccomi, sebbene in ritardo, a piangere sulla triste sorte della vecchia palma, con l’intima, strana e destabilizzante sensazione che con essa, la palma, se ne sia andato via il ricordo di molti secoli di storia. Una storia imponente, forte, autorevole e specificamente cornetana, iniziata molti secoli orsono, prima che la stessa palma nascesse. Persino prima che fosse costruito il chiostro pentagonale che la conteneva, ed ancora prima che venisse eretto il convento che circonda quel chiostro. Anzi, a dirla tutta, addirittura prima che Corneto esistesse.

La storia cominciò infatti nei tempi in cui ai piedi della nostra collina ancora coperta solo da piante di corniolo, già passava una strada lastricata dai romani, che si chiamava Aurelia. Su quella strada in un giorno autunnale del 388 d. C. transitò un africano assai colto, Agostino di Sagaste, futuro vescovo di Ippona, “luce e colonna” del cristianesimo, il più grande tra i padri della Chiesa. Il quale, giunto sulla spiaggia che ora porta il suo nome, Sant’Agostino, si fermò a meditare sul mistero della Trinità. Fu allora che gli apparve un angelo-bambino che, con una conchiglia, cercava di versare “tutta” l’acqua del mare in una buca scavata nella sabbia. “Non è possibile che la tua buca possa contenere il mare” gli disse Agostino. “Così come non è possibile che la tua mente possa contenere l’incommensurabile mistero della Trinità”, replicò l’Angelo e sparì.

Sul luogo di questo incontro, che forse è solo una leggenda, nacque un romitorio e, poco lontano, sui monti della Tolfa, si consolidò un bell’Eremo di monaci agostiniani. Nel XIII secolo, però, gli Eremitani di Tolfa, quasi seguendo un invisibile disegno divino, si trasferirono a Corneto, la città che, ormai nata da tempo, si era trasformata in un luogo solido, forte, turrito e in grande espansione economica e politica. Qui i monaci si accamparono intorno alla Barriera di San Giusto (chissà quale strano luogo era allora e quale strano nome portava), dove nacque il primo nucleo del convento di San Marco che, con il passare del tempo, crescendo su se stesso, divenne una città nella città, con spazi aperti e chiusi: una chiesa con le sue sacrestie e il suo campanile ed una aula capitolare amplissima. E, poi, una famosa scuola teologica provvista d’immense biblioteche, studioli, appartamenti per ospiti illustri, foresterie per i viandanti più poveri, refettori, cucine, dispense, granai, cantine e stalle. E di una fitta rete di cunicoli sotterranei che misteriosamente si dirama ancora oggi per buona parte del sottosuolo del nostro paese.

Nel 1631, al massimo della potenza agostiniana in Corneto, iniziò l’ultimo ampliamento del già grande complesso edilizio. Un lavoro immane che richiese decine e decine di anni – quasi un secolo – durante i quali ebbe luogo anche la costruzione del chiostro pentagonale che poi divenne famoso, e non solo a Corneto, per le piante esotiche e rare del suo giardino. Tra queste la nostra palma che, avendo risucchiato con le sue radici tanta, pregressa e claustrale magnificenza, divenne anche la silenziosa testimone di un inatteso decadere forzoso e violento che, iniziato nel 1811 quando Napoleone soppresse tutti gli Ordini religiosi, culminò nel 1870, con l’avvento dell’Unità d’Italia.

Ora, che perfino la palma è morta, sembra essersi dispersa ogni agostiniana memoria. Ma, come diceva proprio Agostino di Sagaste, gli interventi divini sulle cose sono molto più articolati e complessi di quanto si possa immaginare. Infatti, proprio mentre la palma moriva, come per miracolo riaffiorava nel soffitto dell’androne del chiostro un affresco speciale che – a nostra perenne memoria – rappresenta l’evento primigenio dal quale tutto era nato: l’incontro di Agostino con l’Angelo-bambino che tentava di versare tutta l’acqua del mare in una buchetta nella sabbia di una spiaggia poco lontana da qui.