Lettere al Direttore: “Una riflessione sul consumo di suolo in Italia e nel Lazio”

Riceviamo da Massimo Di Carlo e pubblichiamo

Secondo il Rapporto ISPRA 2025, in Italia nel 2024 sono stati consumati 83,7 km² di suolo, pari a 22,9 ettari al giorno, a fronte di un ripristino di soli 5,2 km². Si tratta di un dato estremamente significativo in una nazione in piena decrescita demografica, con un allarmante aumento del 15% rispetto all’anno precedente.

Nel Lazio la situazione risulta ancora più critica rispetto al trend nazionale: 785 ettari di suolo persi e solo 25 recuperati. Oltre la metà del suolo consumato riguarda l’installazione di impianti fotovoltaici, soprattutto nella provincia di Viterbo, con ben 400 ettari di nuove superfici artificiali che rappresentano oltre la metà del consumo regionale complessivo. In nome della transizione ecologica, forse bisognerebbe privilegiare l’utilizzo di terreni marginali, mentre spesso vengono impiegati terreni di pregio, determinando così, oltre al danno, anche la beffa. La perdita non è solo in termini di produttività, ma anche di biodiversità e valore ambientale: sebbene l’impatto sia inferiore rispetto alle cementificazioni tradizionali, si tratta comunque di interventi che modificano l’equilibrio naturale.

Ancora più allarmante è la crescita del consumo di suolo nelle aree a rischio idrogeologico e sismico, che amplifica la fragilità di un territorio già segnato da rilevanti criticità ambientali. Sempre nel Lazio, oltre l’8% delle aree inserite nelle fasce di massima pericolosità idraulica del PAI (Piano di Assetto Idrogeologico) risulta ormai impermeabilizzato. Questi dati raramente raggiungono l’opinione pubblica e sembrano quasi avulsi dalla realtà; tuttavia, gli effetti di tali situazioni di rischio potenziale si abbattono sempre più spesso sulla collettività, con costi umani e sociali enormi.

La strada da seguire è quella dell’adozione di piani urbanistici lungimiranti e coraggiosi, orientati alle direttive comunitarie e all’ambizioso obiettivo del “no net land take” fissato dall’Unione Europea per il 2050. Preservare il suolo dall’espansione delle opere di urbanizzazione consente di gestire l’ambiente in modo più naturale e di prevenire, e soprattutto mitigare, anche gli effetti dei cambiamenti climatici.

Un esempio evidente è rappresentato dai picchi pluvimetrici orari, che presentano valori sempre più difficili da gestire: con un suolo sempre meno recettivo, la situazione è destinata a peggiorare. Il principio di invarianza idraulica, che costituisce un pilastro fondamentale di un approccio più responsabile, non viene sempre applicato correttamente, nonostante la normativa risalga al 2020 e preveda l’evoluzione verso il modello delle “città spugna”. Questo concetto evidenzia la necessità di lasciare il suolo nelle sue condizioni naturali: la perdita di permeabilità comporta infatti la riduzione dell’effetto filtrante del terreno, una minore infiltrazione delle acque meteoriche e, di conseguenza, un maggiore deflusso superficiale a velocità elevate, con aumentato rischio di erosione ed esondazioni. La sintesi possibile è uno sviluppo sinergico tra ambiente e territorio, integrando lo sviluppo sostenibile con una maggiore tutela del suolo.

In ultimo, si possono richiamare le Linee guida della Presidenza del Consiglio che fissano il principio DNSH (Do No Significant Harm), secondo cui gli interventi previsti dal PNRR non devono arrecare danni ambientali significativi. Questo principio rappresenta la base per l’accesso ai finanziamenti del RRF e sarà progressivamente esteso a tutte le opere future, costituendo uno dei pilastri del programma Next Generation EU. Nella stessa direzione si colloca anche il nuovo decreto ministeriale in vigore dal 1° febbraio 2026, volto ad armonizzare gli interventi, risparmiare risorse ambientali e rendere i progetti il meno impattanti possibile.

In quest’ottica, a livello locale, si inserisce anche l’opera di cui si discute sempre più insistentemente: la realizzazione di un porto turistico alla foce del fiume Marta, già fortemente gravata dal vincolo PAI per rischio di esondazione e classificata come area a massima pericolosità idraulica. Tale progetto non considera adeguatamente gli effetti sulle spiagge né i prevedibili cambiamenti geomorfologici del territorio circostante, oltre al fatto di imbrigliare definitivamente una foce fluviale che, per sua natura, rappresenta un ambiente geodinamico in continua evoluzione e che dovrebbe essere preservato.

Nonostante le problematiche evidenziate, si assiste ancora una volta a un modello economico e amministrativo che privilegia l’espansione edilizia e le rendite immobiliari. È lecito chiedersi se opere di questo tipo, come molte altre che hanno inciso pesantemente sul territorio, generino davvero sviluppo. Le massicce cementificazioni delle coste negli anni Settanta e Ottanta avrebbero dovuto insegnare qualcosa, ma purtroppo spesso “repetita non iuvant”.